Il film è interpretato da ragazzi disabili e attori professionisti. Racconta una disabilità scanzonata, senza drammi che da una lettura di sé stessa non attraverso diagnosi ma attraverso emozioni, affetti, amori; tutto ciò che è in grado di segnare il passaggio da insieme di cellule a persona.
La parte più convincente, che è poi il paradigma della trama, è l’incontro casuale ma forzato tra un uomo di successo con l’indole al guadagno facile ed uno degli ospiti dell’Istituto don Guanella di Roma.

Da un’iniziale distanza fisica e morale si avvierà un percorso che diventerà esistenziale, metafora del perdersi per ritrovarsi. Sorprende notare, ma forse neppure troppo, come tutti i personaggi che interagiscono con i protagonisti con disabilità abbiano alle spalle un proprio personale dolore, quasi a dire che la felicità non richiede competenze, è immediata da comprendere, mentre il dolore ti chiede spazio, tempo, silenzio.
Dopo diversi ostacoli il risultato sarà l’opportunità di saper leggere la fragilità come opportunità per sé stessi e l’aver creato legami che saranno per la vita. I dialoghi a volte non sono in grado di descrivere fino in fondo quella semplicità che confonde i sapienti, mantenendosi più sulla fragilità che intenerisce e commuove.

Un tentativo coraggioso tutto sommato ben riuscito.

Marcella Potenza, 2017

Questo articolo è tratto da
Ombre e Luci n.137

Ho amici in paradiso – Recensione ultima modifica: 2017-03-16T09:01:14+00:00 da Redazione

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