«L’idea che manca nella nostra cultura e nella società è che i ragazzi disabili, autistici, con sindrome di down… tutti, hanno bisogno di sentire di avere un ruolo nella società. Sentirsi utili. Svolgere un lavoro, qualcosa che sia alla pari con gli altri. Nessuno, se assistito, si sente parte della società: piuttosto si sente un reietto. È bello fare festa, divertirsi; a mio figlio piace molto fare festa, ma poi gli piace anche far vedere che sa fare qualcosa: gli piace mettere a posto, aiutare in cucina, partecipare come gli altri alle cose della vita o si annoia.»

Comincia così il colloquio con Mariangela Lopizzo, moglie di Vincenzo, mamma di Carlo (nella sindrome dello spettro autistico) e Chiara, e insegnante di sostegno polivalente in una scuola media romana. Sorella di Ruggero, mancato qualche anno fa, con problemi di autismo.

Nel corso di un lungo incontro-intervista, ci ha raccontato molto della sua famiglia e della vita di e con Carlo. Abbiamo dovuto scegliere tra i tanti argomenti trattati, ma speriamo di poter riproporre in altre occasioni le tante realtà che Mariangela ha messo in luce con i suoi occhi da mamma, sorella e insegnante.
«Carlo ha 21 anni, frequenta l’istituto alberghiero perché gli piace la cucina. Potrà restare fino al compimento dei 23 anni se la scuola è d’accordo. Da piccolo, ogni volta che andavamo in un ristorante, si infilava sempre nelle cucine per guardare, era curiosissimo di come facevano le pizze. A casa stava sempre in cucina per aiutarmi a preparare e mettere a posto. Ho sempre cercato per questo di fargli fare un laboratorio di cucina e all’inizio frequentava la Locanda dei Girasoli. Il cuoco mi propose di mandarlo una o due volte a settimana, accompagnato dalla nostra operatrice, senza alcun compenso, per qualche semplice attività di cucina. Quando poi un consorzio prese in gestione il locale, mandarono via tutti, salvo due ragazzi down. Dissero di non poter fare assistenza. Provai a spiegare che non era questo che cercavo… ora prendono solo i ragazzi con sindrome di Down da un altro istituto alberghiero. Le associazioni di ragazzi down sembrano ghettizzanti a volte… come quella dei sordi, dei non vedenti…posso capirli ma dovremmo imparare a stare con tutti.

“Tutti hanno bisogno di avere un ruolo nella società e di sentirsi utili”

In seguito mi sono rivolta ai centri sociali, famigerati ma molto accoglienti. Fino allo scorso anno andava una volta a settimana, sempre accompagnato dalla sua operatrice, per preparare le cene. C’era una persona disponibile e brava in cucina che lo conosceva e organizzava il lavoro di conseguenza. Ora lei non ha più un orario preciso, il lavoro non è più organizzato per tempo dai volontari che la sostituiscono e non posso più mandare Carlo.

Adesso segue un laboratorio a casa di una terapista occupazionale, non in casa nostra, altrimenti questa attività perderebbe valore ai suoi occhi.

Sei anni fa ha cominciato le superiori. Non aspiravamo ad un attestato né ad un diploma, sapevamo che sarebbe stato impossibile. Il primo anno era in un istituto agrario e poi abbiamo cercato un’altra scuola con programmi più adatti e poiché la terra non interessava a Carlo; ho cercato un alberghiero: aveva diritto a scegliere una scuola che gli piacesse, come aveva fatto sua sorella. Alla fine abbiamo trovato l’istituto giusto e organizzato l’inserimento con il nostro assistente specialistico. Normalmente l’insegnante di sostegno programma il lavoro e l’assistente lo coadiuva quando non è presente; nel caso di ragazzi non autosufficienti, l’assistente segue anche il ragazzo nelle sue necessità. Nel caso di Carlo, il lavoro è al contrario. Gli assistenti spesso sono laureati in psicopedagogia o educatori. Il suo assistente, formato nel metodo ABA, istruiva l’insegnante di sostegno – che ogni anno cambiava – e indicava come lavorare con lui.

Carlo, fino ai tre anni era un bambino normale, parlava, cantava, seguiva le storie, poi, intorno ai 4 anni e mezzo ha cominciato a chiudersi in se stesso e a regredire… non capivamo cosa fosse accaduto. Sembrava una problematica di tipo psicologico perché la sorella minore in quel periodo cominciava a parlare; dopo una lunga attesa mi dissero —Suo figlio ha la DGS… — Che cos’è? — Disturbo generalizzato dello sviluppo — Sì, ma che cos’è? — Vada dalla segretaria che le darà due indirizzi —.

Mio figlio è ancora in lista di attesa a quei due indirizzi, non mi ha mai chiamato nessuno.

Cominciammo con la logopedia ma a Carlo non serviva. Si richiudeva in se stesso, si raccontava storie a modo suo, si stereotipizzava, non identificava i colori.

Prima mi chiedeva le cose, era curioso, disegnava alcune cose, seguiva tutto… Poi perse interesse e cominciò a regredire e noi iniziammo a girare per medici che non ci diedero alcun consiglio. Gli psichiatri meno che mai. Doveva regredire perché era il decorso della malattia, o perché non lo facemmo lavorare per tempo? Non lo saprò mai. È il mio coltello nel cuore, continuo.

A settembre è sempre un problema: noi lavoriamo e Carlo invece non ha scuola; gli operatori si devono ancora organizzare, la sorella è impegnata negli studi… Visto che Carlo adora la nonna sono partiti insieme per un campo Fede e Luce ed è andata benissimo. Mia madre ha 87 anni e continua ad andare in comunità dai tempi di mio fratello Ruggero; per lei è come una seconda famiglia. Al campo c’erano ragazzi pure più piccoli di Carlo ma lui è un bambinone e si è trovato bene con loro. Ha bisogno del suo gruppo di riferimento ma gli piace stare con gli altri, proprio tanto, al di fuori di mamma e papà. Anche quando gli operatori mi devono parlare, lui si scoccia, ha piacere a stare con loro e comincia ad attuare comportamenti-problema. Gli ho insegnato a dire “va via, lasciami stare” piuttosto che fargli creare un comportamento-problema; oppure “aiutami” che spontaneamente non avrebbe detto. Così quando comincia ad andare in tilt, chiede aiuto e crolla il problema.

Quando mio fratello era giovane, eravamo una delle poche famiglie che lo portavano in giro. Una ragazza americana nostra ospite, circa trent’anni fa, mi chiedeva —Ma qua i ragazzi disabili non ci sono?—. In effetti era anche inopportuno portarli in chiesa, in giro davano fastidio, i genitori si vergognavano, non sapevano gestirli.

Ultimamente l’atteggiamento sta cambiando. Li vediamo di più nelle scuole, per strada… certo, ancora non lo vengono a cercare a casa… Fin tanto che frequentava le medie, Carlo era invitato alle feste ma alle superiori ormai ognuno va per conto proprio ed è sempre più difficile invitare i compagni. Dentro scuola però lo cercano; si sono anche arrabbiati perché l’insegnante di sostegno non era abbastanza brava. Occorre la sensibilità dei genitori per coinvolgere i ragazzi, spontaneamente non è facile.

Quando Carlo finirà la scuola, i centri diurni dovrebbero essere la sua destinazione ma hanno liste di attesa enormi. Ci siamo già passati con mio fratello e vorremmo davvero evitare gli psicofarmaci, l’idea di parcheggio, la cronicizzazione. Mia mamma doveva firmare delle carte secondo le quali mio fratello avrebbe fatto un sacco di attività; in realtà mio fratello non faceva niente. Ma doveva firmarle, per paura che lo cacciassero.

Con l’associazione di genitori di cui facciamo parte da anni chiediamo che i nostri ragazzi, secondo la legge 328/2000, abbiano un progetto in accordo con tutte le istituzioni coinvolte: scuola, ASL, Municipio, un progetto ad hoc per ciascuno, per aiutarli a non peggiorare, a non cronicizzare e a non dover far spendere altri soldi alla società.

Chiediamo parte dei soldi destinati ai centri diurni ma è difficile far passare un accordo tra le associazioni. È vero, l’assistenza fisica serve ma non l’assistenza mentale, svaluta la persona e non l’aiuta a stare meglio. Bisogna cercare di far diventare la persona protagonista, responsabilizzandola su quanto deve fare. Carlo, quando taglia le patate e le carote, sa che dopo le mangeremo insieme nel minestrone. Eppure tanti dicono -Poverino… perché devi farlo lavorare? Carlo non parla anche perché non gli serve parlare: basta che faccia gli occhi dolci. Neanche gli fanno chiedere le cose, neanche dire grazie e, se io insisto, sembro cattiva.

Vorremmo creare una cooperativa integrata in cui il ruolo dei ragazzi inseriti sia di aiuto a produrre: un agriturismo, con il lavoro della terra, di ristorazione, di pulizia. Non ci facciamo illusione che possano far da soli: dovranno essere accompagnati ma, almeno, non solo assistiti.

Ora il futuro di Carlo è una scommessa e non mi importa di farlo stare in una bella villa… devi integrarti nel quartiere, devi vivere con gli altri, devi imparare a stare con gli altri.

E gli altri devono poterti accogliere».

Mariangela Lopizzo, 2017

Questo articolo è tratto da
Ombre e Luci n.137

Avere un posto nella società ultima modifica: 2017-03-16T12:30:14+00:00 da Redazione

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