Suor Veronica Donatello, responsabile del Settore per la catechesi delle persone disabili dell’Ufficio Catechistico nazionale della Cei, è tra le quaranta personalità, alle quali il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, ha conferito onorificenze al Merito della Repubblica Italiana nel 2016.

Suor Veronica l’ha ricevuta “Per il suo contributo nella piena inclusione delle persone con disabilità”. Romana, 42 anni, religiosa nella Congregazione delle Suore Francescane Alcantarine, è impegnata, sia come docente sia come membro di commissioni tecnico-scientifiche, nell’inclusione e partecipazione attiva delle persone con disabilità. È esperta in comunicazione aumentativa alternativa e Lis per l’accessibilità dei testi. Le abbiamo rivolto alcune domande.

Abbiamo letto che questo premio ti ha lasciato senza parole: come riconoscimento civile ci fa pensare al rapporto, spesso difficile ai nostri tempi, tra fede e laicità. Nell’inclusione di chi è ai margini della società è invece possibile un terreno di incontro?
La Chiesa del Concilio che vediamo attualizzata in questo tempo ci chiede proprio questo: la Chiesa che sa uscire, che sa farsi prossima, che sa stare al fianco.

Questo riconoscimento è un segno che la comunità cristiana veramente si è posta come chiesa in uscita, prossima non solo ad intra ma anche ad extra, in alleanza di impegno. Penso a tante nostre diocesi che danno voce a chi sta ai margini sostenendo le coppie, dalla pastorale dei fidanzati, al cammino di catechesi, agli oratori, alla dimensione adulta con i centri diurni, all’accompagnamento alla morte, alle strutture del dopo di noi che coinvolgono effettivamente realtà associative e la società intera. Di dopo di noi parleremo anche nel prossimo seminario organizzato per il 10 maggio p.v. a Bologna dall’Ufficio Catechistico Nazionale. Siamo riusciti insieme a rimuovere delle barriere non solo fisiche ma anche mentali, a creare dei ponti.

Hai detto di essere cresciuta in mezzo ai disabili ma invece di scappare e rifiutare questa realtà ti ci sei immersa. Quale percorso è stato necessario?
Un percorso di umanità! Accogliere tutto quello che succede, tutto quello che si può vivere a livello umano, nel confronto, scoprendo che avevo dei genitori diversi dagli altri perché sordi, mia sorella Chiara con la sua disabilità. Vivere quello che l’uomo vive: la gioia, le frustrazioni, la rabbia… ma non verso i miei genitori, forse verso la società. A volte anche verso la Chiesa quando ha rifiutato a mia sorella i Sacramenti o che a volte, negli anni passati, ha ghettizzato nella specialità e in luoghi appartanti la presenza delle persone disabili. Ho avuto il dono e la grazia di avere due genitori che vivono la loro disabilità con serenità e con donazione, pur avendo vissuto quello che vivono tutti i genitori come loro. Credo che mi abbia aiutato prima di tutto avere loro come testimoni e poi negli anni potermi confrontare con alcune persone che mi hanno fatto leggere la mia storia come storia di dono, non solo per me ma anche per una comunità, per la Chiesa. Insomma, essendo umana nella verità, nella relazione e dentro quello che vivi.

Quale cambiamento ritieni necessario per le persone con disabilità?
Le stesse persone con disabilità devono credere che hanno la medesima dignità degli altri, come sottolineò Benedetto XVI nel 2009 quando disse che, in virtù del Battesimo, siamo tutti evangelizzatori nella comunità. Anche quando si utilizzano linguaggi e diverse modalità.
La comunità cristiana accoglie la sfida lanciata da papa Francesco del “tutti o nessuno” dell’11 giugno scorso. Una Chiesa che non accoglie tutti è una Chiesa che manca di alcune parti: come una casa a metà che non è una vera casa. Penso ad esempio alla liturgia della domenica, perché è ciò che rimane davvero nelle comunità, a prescindere da vari cammini spirituali che si possono mettere in atto. Cercando sempre più di avere delle liturgie che, nella loro umanità e senza inventare cose strane, valorizzino ciò che già hanno al loro cuore tenendo conto della presenza di tutti. Poi penso alla pastorale giovanile, al gioco, all’oratorio, alla catechesi degli adulti… non avendo paura della diversità, permettendo alle persone con disabilità di poter esprimere con gli altri e non solo testimoniare la propria fede.

Nei tuoi interventi si coglie la necessità di considerare la persona con disabilità in pienezza: basta ai buonismi, agli infantilismi… ancora tanto presenti nel nostro quotidiano; come aiutare le persone a cambiare questo sguardo sulla persona con disabilità e forse della persona stessa su di sé e dei suoi familiari?
È necessario normalizzare la loro presenza: non solo alla “festa del malato” o alla “festa della persona con disabilità”! In quanto fratelli della comunità cristiana, ne fanno parte e questo aiuta anche loro a rendersi conto che tutti hanno dei doni e dei limiti.

La sfida è l’incontro, la conoscenza, la capacità empatica che si realizzano solo se permetti all’altro di far parte della quotidianità e non di uscire solo nella pastorale degli eventi. Ecco perché parliamo di inclusione. Tutti sono chiamati ad abitare – uno dei verbi usciti dal convegno di Firenze – il territorio, la storia. Hannah Harendt, la filosofa tedesca, sottolineava l’importanza di permettere di narrare la propria storia. Riconoscere allora, anche nella persona con disabilità, una capacità autobiografica. Permettiamo che esistano nella nostra società.

Anche in Amoris Laetitia n. 47 si sottolinea che le coppie che vivono questa esperienza, comprendono che il loro figlio può divenire dono solo se si sentono aiutate a rileggere questa storia. Soli non ce la si fa! È la sfida della chiesa: la chiesa non è io ma è un noi. La stessa coppia sarà, con il suo sapere genitoriale, un dono per la comunità cristiana. Questo avviene solo facendo spazio, lasciando che salgano in cattedra, che è poi la cattedra che ha scelto Dio, quella degli ultimi. Perché non osare? Chi lo fa scopre che è bello e possibile, come essere valorizzati, riconosciuti nei propri desideri… spesso invece parliamo, scegliamo noi per loro.

La sfida è rivedere le nostre prospettive epistemologiche e lavorare contro l’idea dei benpensanti, come ai tempi di Gesù, che già conoscono e già sanno. Smetter di guardare l’altro come differente, problema, disfunzionale, caso, elemento di disturbo, BES… termini che rischiano di ghettizzare l’altro. Secondo Heidegger quando si parla di cura, l’esistere dell’altro è la cura vera, prendersi cura della sua esistenza è farlo esistere. Cura senza alcuna accezione di assistenzialismo, di buonismo o di servizio di riabilitazione.

Ci sono bellissimi studi e libri sulla dimensione spirituale della persona con disabilità, anche grave. Come Chiesa, rischiamo di perdere ciò che per grazia abbiamo come dono. Sempre meno certo, ringraziando Dio! Ho parlato recentemente con parroci e vescovi che incontrano coppie che hanno figli con disabilità nelle loro case ed è così bello! Sempre più si osa. Tanti chiedono non come non si può fare o se si possa fare, ma come. Chiedono aiuto, strumenti, come lavorare a fianco alla coppia. Un parroco mi raccontava che nel gruppo giovanile ci sono due adolescenti gravi allettati e il gruppo va due volte al mese a casa loro. Questo è bello e crea cultura nuova: significa mettere in atto prassi nuove ma ordinarie, che non escono sui giornali… le so io. Significa far rumore ognuno al proprio posto, con piccoli gesti di ordinarietà.

Cristina Tersigni, 2017

Questo articolo è tratto da
Ombre e Luci n.137

Abitare nell’ordinarietà ultima modifica: 2017-03-16T12:10:14+00:00 da Cristina Tersigni

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