Scegliamo con cura le parole

Ho letto con interesse l’articolo di Rita Massi (“Come dirlo” n. 141, p. 8) e non si può che essere d’accordo sul fatto che qualunque termine può essere offensivo o meno, dipende dal contesto e dall’intenzionalità di chi lo pronuncia.
Però vorrei esprimere una piccola riserva.
Durante il mio primo anno d’insegnamento da incaricata annuale, nel liceo scientifico di Caluso (TO), il preside, prof Del Giudice, forse preoccupato dalla giovane età del gruppetto delle nuove insegnanti, organizzò un corso di aggiornamento didattico – disciplinare; lui stesso tenne la prima lezione.
S’iniziò dall’appello.
Nel caso avessimo avuto dubbi sulla pronuncia di un cognome (allora si trattava solo di accenti, non c’erano non italiani in classe), dovevamo chiedere all’interessato la dizione giusta e scusarci quando la sbagliavamo.
Mai accusare di essere “maleducato” o peggio “stupido” ma sempre “ti stai comportando come un maleducato” o “come uno sciocco” ecc.
Evitare anche “timido”. Parlando con i genitori, al classico “suo figlio è molto timido”, era preferibile “è un ragazzo riservato, lasciamolo crescere…”.
Il nostro essere un riferimento doveva cominciare proprio dal nostro linguaggio.
Anni dopo, leggendo e ascoltando Jean Vanier, ho ritrovato lo stesso invito a non abbassare la guardia nemmeno nell’uso delle parole. “Si dice persona con disabilità non persona disabile, perché la disabilità della persona non la esaurisce”.
Sappiamo che la comunicazione non è solo verbale, ci sono gli sguardi, l’intonazione, il contesto, i silenzi, la consuetudine, i gesti e ancora, per non parlare di situazioni oggettivamente gravi, complesse.
Ma se l’attenzione a quello che si dice, ai termini che si scelgono, fosse un esercizio continuo arriveremmo, forse, alla delicatezza d’animo, alla leggerezza “profonda” che sa esprimere senza ferire.
Come gli uccellini che si poggiano sul rametto senza inclinarlo.

Nicla Bettazzi


Viaggio per Tirana

Io la sera prima, sono tutto elettrizzato, perché ho saputo che vado a Tirana, insieme a Fabio che mi è venuto a prendere fino a casa mia, nel quartiere Annibaliano. Gli ho detto dove farmi trovare, gli ho detto vicino al giornalaio in piazza. Io non ho ritardato, mia madre ed io ci svegliamo alle ore 5:00, ho fatto colazione e mi sono diretto per la rampa fino ad uno spiazzo per strada. Io lo vedo arrivare perché lo riconosco, mi ha parlato e mi ha seguito tutti e due i giorni. Io sono un ragazzo che parla poco e sa parlare a tono e ascoltare; io ho percorso la strada, e in macchina raggiungiamo un parcheggio e dopo l’aereo, facciamo i controlli dei bagagli e della carta d’identità, senza non potevo partire. Ma è per me una cosa importante, conoscere persone nuove, è un gemellaggio importante per noi due, lui li conosceva già, ed è abituato a viaggiare. Io salgo sull’aereo Alitalia e preferisco stare vicino al finestrino, altrimenti non saprei cosa guardare. Il viaggio è breve e quando arriviamo siamo stati invitati da Albina che ha due figlie in una casa. Una ha cucinato la pasta colorata e mette il condimento e dopo pranzo lava i piatti; Fabio è sempre aggiornato su tutto, mi parla e mi dice questa è la via dove c’è vita, non c’è terrorismo e camminano beati fino a sera tardi, non come da noi che siamo tormentati dalla politica che ci leva i soldi dalla tasca. La vera occasione che abbiamo da fare e l’incontro della comunità, io ho visto persone nuove del posto, e li ho visti felici per mangiare la pastarella e scegliere il nome per la comunità Casa della Pace; li ho visti a messa, mi piace sentir cantare in straniero. Io e Fabio il giorno dopo passeggiamo con Aldo e visitiamo la mostra dei geroglifici intarsiati, e andiamo per la piazza dove c’è l’eroe nazionale Scanderberg, io non ricordo le altre vie. Poi andiamo in un posto dove c’è un lago e il paesaggio vicino la montagna. Torno a Roma per le 19:00, prendiamo l’aereo e facciamo il ritorno per le nostre strade.
Giovanni Grossi


Lezioni di vita

Vorrei raccontare le mie sensazioni per la bella giornata del giugno scorso. Ultimamente non sto passando un bel periodo dal punto di vista emotivo. So bene che le tragedie sono altre, però quando si investe sinceramente e col cuore tantissimo in sette anni verso un progetto in cui credi e accanto ad amici che poi non so se definirli ancora tali, e lo vedi sfumare la delusione e lo scoramento sono tanti. Con questo animo, purtroppo, sono andato a vedere, con la mia bella famiglia, uno spettacolo di teatro sociale in cui recitava Emanuele, un ragazzo di 15 anni con sindrome di Down che gioca a calcio con Maurizio e Antonio. Una storia meravigliosa in cui lui è uno dei protagonisti insieme all’attrice che recitava la parte della sorella malata di SLA che voleva trovare un lavoro per lui e sistemarlo prima di morire, e ci riesce grazie ad un attore, fino a quel momento preoccupato solo della sua carriera, che li ospita a casa sua e dedica la sua vita a loro. Non mi vergogno a confessarvi che ho pianto, per la storia, per l’identificazione con la grande preoccupazione per il dopo di noi, e nel vedere il dolcissimo Emanuele recitare benissimo come un attore consumato. Poi siamo arrivati a casa Bertolini. Stavo un po’ sulle mie, ancora preso nelle mie elucubrazioni sulle mie recenti vicende emotive. Si avvicina Marco, con la sua disarmante serenità e il suo dolcissimo sorriso e mi fa: “Che hai, sei triste?”. Io rispondo di sì, che ho avuto un po’ di dispiaceri. E lui: “Ma in famiglia? Strano perché Mara è carinissima! “. Io gli rispondo: “No, con gli amici”. Lui piazza il suo miglior sorriso e mi dice: “E allora? Guardati intorno, guarda quanti amici hai!”. Mi sono girato e li ho visto tutti, belli, sereni, ognuno preoccupato di far star bene chi gli stava vicino, come Marco ha fatto con me. Mi sono girato e l’ho abbracciato, quasi stritolandolo. Marco, come tutte le persone speciali che, grazie al mio Maurizio, ho conosciuto in tanti anni, con lo sport, il teatro integrato, la musicoterapia, Fede e Luce, mi ha dato l’ennesima lezione di vita. Grazie a Marco e a tutti voi, splendidi esempi che nella vita dovrebbe contare veramente solo il cuore. Infine un grazie speciale a Cristina e Nanni che evidentemente non amano stare soli: già sono tanti di loro e ogni anno riempiono il loro bel giardino di questa truppa di soldati dell’amore.
Paolo Catapano


Sogno in grande

Sono Marco e faccio parte di Fede e Luce da quando ho 15 anni. Ora ne ho 55. Racconto queste cose ad un’amica (ci penserà lei a dattiloscrivere e inviare questa lettera), mentre sono al mare, in spiaggia, ad un campo proprio di Fede e Luce, una delle pochissime realtà in cui mi sento davvero me stesso, mi diverto e dove so che mi vogliono bene. C’è stato un periodo di pausa nella mia partecipazione; cercavo altro ma ora, da qualche anno, sono tornato nella mia vecchia comunità di Santa Silvia. Ho una disabilità motoria di tipo spastico che mi impedisce di camminare, per questo uso una carrozzina o, per brevissimi tratti, ho bisogno di qualcuno cui appoggiarmi. Mi faccio capire ma non parlo proprio fluidamente. Ho una manualità di cui non mi lamento… qui al campo riesco ad apparecchiare, sposto sedie, gioco a carte, disegno con un po’ di aiuto. A Roma lavoro presso lo sportello disabilità di un sindacato. Per qualche tempo, tanti anni fa, sono stato anche nella redazione di Ombre e Luci, poi in un ufficio dell’assessorato alla cultura del Comune di Roma.
A Fede e Luce ho conosciuto persone tanto importanti che hanno cambiato le mie prospettive (uno dei più cari che non posso proprio dimenticare è stato Francesco Gammarelli). Da qualche anno sto coltivando un sogno… in tanti, amica compresa, mi dicono che è un’utopia.
Non so sognare in piccolo: ormai sono grande, vivo con mio papà che mi è stato sempre accanto e che da poco ha subito un brutto intervento. Inevitabilmente penso al mio futuro, ma non solo perché un giorno mi mancherà il suo aiuto e il suo affetto ma perché ho ancora il desiderio di costruire qualcosa di bello per me e per quanti vorranno unirsi a me.
Il mio motto è “trasformare l’egoismo in altruismo” cioè quello che vuole fare il suo bene sapendo di farlo anche ad altri.
Così vi spiego: ho creato un’associazione “Il paese di Filoastra”. Nome difficile… intento grandioso. Vorrei riuscire a costruire un villaggio dove essere disabili come me, non sia un impedimento a NIENTE. Dove a ciascuno sia garantita la possibilità di una vita affettiva e lavorativa, indipendente e socialmente libera. Dove il frutto del nostro lavoro sia integrato dai beni che saremmo in grado di produrre, dalle storie che sapremo raccontare (sogno una specie di reality con noi protagonisti, capace di aprire al mondo gli occhi sulla disabilità); dove si riesca a costruire e trasmettere (magari anche attraverso una webradio) una cultura finalmente aperta alla persona con disabilità. Dove si possano avere delle persone attente, dipendenti e abitanti ospiti del villaggio, che ci seguano dove noi non arriviamo con le nostre possibilità. Dove potremmo avere anche la nostra moneta interna di scambio per il nostro emporio in cui potrebbero lavorare persone che non trovano altrove alcuna possibilità di impiego, neanche da scaffalista in un supermercato.
Dove non sia necessaria automobile per raggiungere gli amici per una serata insieme, dove neanche la pioggia potrà fermarci perché vorrei che ogni casa del villaggio fosse collegata alle altre attraverso delle gallerie, anche sotterranee.
Leggo il dubbio negli occhi della mia amica: non sa se prendermi del tutto sul serio ma sa che non fingo perchè le ho spiegato che vorrei poter vivere nel quotidiano quello che vivo, per una domenica al mese o per una settimana in estate, con Fede e Luce. E che quando finisce mi fa venir da piangere. Perché vedo e sento sulla mia pelle le necessità di chi ho intorno e come si rispecchiano nelle mie.
Sono stanco di vivere in un condominio da 50 anni dove nessuno è realmente interessato a me. Cercare sempre chi possa accompagnarmi dove ho bisogno di andare, anche dal medico. Anche per questo uno dei primi obiettivi che mi sono dato con l’associazione è stato l’acquisto di un pulmino per facilitare gli spostamenti di persone con le mie difficoltà. Ma non è facile convincere le persone, trovare i fondi: il progetto che sogno è tanto ambizioso, me ne rendo conto. La mia amica mi chiede se ho mai pensato di cominciare come hanno fatto altre realtà comunitarie che abbiamo visto nascere: un piccolo gruppo di persone, magari almeno altre due con una disabilità come la mia, in un appartamento o in una villa ben attrezzata e ripartita, con supporti moderni, del personale di aiuto in comune. Dice che potrebbe essere un modo per capire se è l’occasione di realizzare il sogno di altre persone, con una possibilità di confronto all’inizio più realistica (anche se niente affatto scontata). Non so se mi convince… non riesco a non sognare in grande… secondo voi, troverò qualcuno disponibile a condividere il mio sogno?
Marco Colangione

Questo articolo è tratto da
Ombre e Luci n.143, 2015

Dialogo aperto n.143 ultima modifica: 2018-07-20T07:00:21+00:00 da Redazione

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