Un uomo vestito di bianco con al collo una semplice croce di ferro: è questo il Papa che il mondo ha visto affacciarsi dalla Loggia delle benedizioni il 13 marzo 2013. Privo di oro, mozzetta e rocchetto, Jorge Mario Bergoglio, venuto «quasi dalla fine del mondo», è diventato il nuovo vescovo di Roma assumendo un nome che mai prima nessuno aveva osato. In quel tardo pomeriggio umido di pioggia, sentendo il nome scelto dal cardinale di Buenos Aires, abbiamo pensato ai poveri, all’essenzialità, alla pace, alla cura per il creato. Ma abbiamo pensato anche ad altro. Perché Francesco d’Assisi è stato anche il santo che ha lasciato una testimonianza splendida di cosa significhi la parola amicizia. Con chi è differente da noi per sesso, fede, cultura, capacità, linguaggi, sguardo sul mondo: amicizia è un cammino fatto assieme, in un percorso profondo, reciproco e paritario.
Quello di Franciscus è stato un pontificato le cui luci hanno parlato anche di periferie che diventano centro, di «scarti» a cui viene restituita la voce, di migranti finalmente riconosciuti come persone umane, di economia che sevizia e uccide, di quotidiane scelte evangeliche che possono essere fatte anche se costano fatica, soldi, tempo e gloria. Ma è stato anche un pontificato che ha camminato assieme alle persone con disabilità.
Resta, in particolare, una scintilla luminosa il messaggio che il Papa inviò per la Giornata mondiale delle persone con disabilità nel 2019. Luminosa non solo nel contenuto, ma anche nella scelta delle parole. Prendendo posizione a favore della cultura dell’incontro, denunciando discriminazioni e rifiuti, con il suo discorso Bergoglio segnò una tappa cruciale: non utilizzò mai parole come malato o malattia, né mai parlò di disabili, ma si riferì sempre e soltanto alle «persone con disabilità». E siccome (per dirlo con Luce Irigaray, e per ribadirlo spesso, come facciamo) parlare non è mai neutro, si è trattato di una scelta che segna un cambiamento radicale nei confronti della disabilità.
Francesco invitava a farsi carico «con forza e tenerezza» delle situazioni di marginalità, a procedere insieme in un cammino («anche faticoso») indispensabile per garantire a tutti «una partecipazione attiva alla comunità civile ed ecclesiale». Perché sono ancora troppe le persone che «sentono di esistere senza appartenere e senza partecipare», perché è ancora imperante quel «peccato sociale» che «considera alcune vite di serie A e altre di serie B». Tutto nella certezza che la «persona con disabilità, per costruirsi, ha bisogno (…) anche di appartenere a una comunità».
Quella comunità che è mancata a tutti, qualche mese dopo, quando il covid stravolse le nostre vite. E lì, il Papa che come primo viaggio apostolico aveva scelto Lampedusa; che il giovedì santo del 2013 presso il carcere minorile di Casal del Marmo a Roma aveva lavato i piedi anche a due ragazze, una delle quali musulmana (non era mai successo che un Pontefice scegliesse una donna per interpretare gli apostoli alla lavanda dei piedi); che aveva aperto il giubileo straordinario del 2016 da Bangui, nella Repubblica Centrafricana; che in uno dei venerdì della misericordia era andato a trascorrere un pomeriggio al Chicco di Ciampino; che aveva celebrato messa in quel confine di sangue e ingiustizia che è la terra tra Stati Uniti e Messico; che dal 2017 ha cambiato la rotta della Chiesa su armi e deterrenza (finalmente il loro possesso anche solo a questo scopo è condannato in quanto «contraffazione della pace»); ecco ora, in quel 27 marzo 2020, il Papa camminava solo in uno spazio urbano immenso.
Solo, claudicante, sotto la pioggia nell’ora in cui il giorno lascia il campo alle tenebre; solo, accompagnato dall’accavallarsi di campane e ambulanze, fragile e fortissimo assieme nel portare a Dio il dolore del mondo, e la speranza della fede. Quando prese la parola – da principio affaticato per il cammino compiuto (un fiato che nel tempo gli mancherà spesso, non impedendogli però quasi mai di esserci, fino alla fine) – quell’uomo ha citato un’immagine molto cara a Fede e Luce.
«Sembra sia scesa la sera – disse Bergoglio da una piazza San Pietro nuda come mai l’abbiamo vista e mai, probabilmente, la rivedremo –. Fitte tenebre si sono addensate sulle nostre città; si sono impadronite delle nostre vite riempiendo tutto di un silenzio assordante e di un vuoto desolante, che paralizza ogni cosa (…). Ci siamo trovati impauriti e smarriti. Come i discepoli del Vangelo siamo stati presi alla sprovvista da una tempesta inaspettata e furiosa. Ci siamo resi conto di trovarci sulla stessa barca, tutti fragili e disorientati, ma nello stesso tempo importanti e necessari, tutti chiamati a remare insieme, tutti bisognosi di confortarci a vicenda. Su questa barca ci siamo tutti».
Una barca che trasporta dodici piccole figure circondate da un cielo carico di nubi e da un mare agitato è il simbolo di Fede e Luce. Una barca per incarnare una comunità che vive, ama, soffre e gioisce, insieme. Francesco parlava al mondo e del mondo, ma noi ci siamo sentiti – per una volta almeno – in prima fila. Noi, che sappiamo bene come non sia possibile «andare avanti ciascuno per conto suo»; che la sola strada per affrontare le difficoltà e far germogliare la vita è quella di procedere insieme.
Leggi anche: Dialogo Aperto – per Papa Francesco
Il Papa ha proseguito nella preghiera che noi, proprio noi, capivamo benissimo, anche se a volte abbiamo difficoltà a concentrarci, a comunicare, a vedere, a sentire, ad ascoltare. Noi lo conosciamo questo mondo assetato di cose, efficienza e fretta, un mondo sordo perché fatto di tanti ciechi convinti di essere forti e capaci di tutto. Solo, sofferente e bagnato, Francesco non ha parlato a noi, di noi o per noi: Francesco ha parlato con noi. E lo ha fatto fino alla domenica di Pasqua di questo complesso, e doloroso, 2025.
Questo articolo è tratto da
Ombre e Luci n.170