Questa è una storia che racchiude tante altre storie. È una storia di amicizia, di bullismo, di disabilità e di normalità (o di disabilità che può essere normalità), di scuola che accoglie, di madri che sanno ascoltare e di madri impermeabili, di donne che immaginano. E che trovano soluzioni.

«Alberta ha una grande attenzione per l’ambiente che la circonda; empatica con il prossimo, è sicuramente più educata e più sensibile della media». Alberta Maria Arcorace ha 8 anni, vive a Reggio Calabria (dove è nata) con la mamma, il papà e il fratellino Ermanno, ed è una bambina molto affettuosa, molto espansiva, molto fisica. Lo scorso anno, in prima elementare, «ha vissuto un brutto periodo: non tutte le sue coetanee, infatti, sono abituate a questi atteggiamenti calorosi e così Alby è stata oggetto di esclusione e di derisione, di bullismo da parte di alcune bambine della classe che, tra l’altro, conosceva da tempo», mi dice Pamela, sua madre.

«Raccontavo di questo brutto periodo di mia figlia a Serena, una delle mie amiche più care dai tempi delle superiori, e mentre ero da Toys ho notato una Barbie in carrozzina. Magari c’era sempre stata, ma io l’ho notata proprio quel giorno, e ho mandato la foto a Serena. Lei mi ha risposto immediatamente: “Prendila, la regalo io ad Alby, secondo me può aiutarla in sicurezza!”. Non ero molto convinta in realtà, ma Serena ha insistito e io mi sono fidata».

È una storia di bambine empatiche, di bullismo e di soluzioni trovate

Facciamo un passo indietro. Era il 9 marzo 1959 quando, alla Fiera del giocattolo di New York, faceva la sua comparsa Barbie. Dalle linee sinuose e dal volto ispirato a star come Marilyn Monroe ed Elizabeth Taylor, apparve nei negozi con costume zebrato, frangetta e capelli biondo-rossiccio raccolti in una lunga coda di cavallo: fu un successo inarrestabile. L’inventrice si chiamava Ruth Marianna Mosko ed era la moglie del fondatore della Mattel. L’idea le venne guardando giocare la figlia Barbara (da cui il nome Barbie): intuendo potesse trattarsi di un’ottima scelta di mercato, Ruth suggerì al marito, inizialmente scettico, l’idea di una linea di bambole adulte (poi verrà Ken Carson, la cui prima apparizione risale al marzo 1961, dal nome dell’altro figlio degli Handler).

Dal 1959 a oggi Barbie ha intrapreso 150 differenti carriere (comprese astronauta, pilota, vigile del fuoco o paleontologa); icona globale (ha incarnato da Cleopatra a Gabby Douglas, prima ginnasta afroamericana statunitense a vincere l’oro alle Olimpiadi), ha respinto al mittente tante accuse, come quella di razzismo o di essere veicolo di un’idea di bellezza nociva. Perché, più di recente, Barbie ha “finalmente” avuto le protesi e la vitiligine, è stata calva, è diventata più bassa o più spilungona, più tonda (non grossa, semplicemente normale).

Tra tutte queste novità, armonizzando finalmente bellezza e disabilità (binomio da molti considerato irrealizzabile), nel 1997 è nata Barbie in carrozzina. Certo, anche per lei il cammino è stato in salita: dopo nemmeno un mese dal lancio, infatti, divenne palese l’enorme gaffe della Mattel poiché la sedia a rotelle della signorina non riusciva a entrare nella celebre casa a più piani (si dice che le barriere architettoniche ne abbiano fatto crollare le vendite). Fatto sta che poi ci si è adeguati, ma la bambolina carrozzata è rimasta comunque nelle retrovie; dimenticata proprio, verrebbe da dire: incredibilmente, ad esempio, mancava nella mostra itinerante Barbie. The Icon, curata da Massimiliano Capella, che ha attraversato le principali città italiane. Ennesima occasione persa, almeno fino ad Alberta, che le ha dato nuova vita.

«È diventata la sua preferita! Con tanto di carrozzina, Alby se la porta dietro ovunque; questa estate, per dire, sono andate assieme al centro estivo. Quando le ho chiesto cosa avessero commentato gli altri bambini, mi ha guardata sorpresa: “Che mi devono dire? Gli è piaciuta!”; l’espressione di mia figlia diceva: “Dove sta la notizia?”. È semplicemente una delle sue Barbie, la propone e la percepisce come una tra le altre, con le sue caratteristiche».

Abituata sin da piccola a frequentare l’Unitalsi, a vedere nella sua vita persone fragili, Alberta «la disabilità proprio non la vede, non la nota. Non la registra. Davanti alle principesse Disney sulla controcopertina di Ombre e Luci ha esclamato: “Sono come lo zio Piero!” (un nostro amico dell’U- nitalsi). Era molto incuriosita, e io le ho raccontato le storie di Giusy Versace, della Atzori, di Bebe Vio».

Può un gioco rafforzare una bambina in un momento di difficoltà?
Sì. Può la bambolina più venduta al mondo (tre al secondo, dice la Mattel) diventare una spia del nostro modo di relazionarsi con la disabilità? Sì. «Paradossalmente – precisa Pamela – lei che dovrebbe essere la Barbie handicappata, in realtà è tutta snodabile! Paradossalmente, si muove molto meglio delle altre».

Può la bambolina più venduta al mondo diventare una spia del nostro modo di relazionarci con la disabilità?

Nella ritrovata serenità di Alberta, un tassello importante lo ha messo anche la scuola. «Parlai all’epoca con le maestre del disagio che mia figlia provava; non voleva più andare a scuola, al tennis, non voleva più frequentare le attività che amava ma che condivideva con le bambine bulle. L’educatrice scolastica del pomeriggio è stata la sola ad ascoltarmi (le altre mamme, ad esempio, hanno minimizzato, liquidando i fatti come “cose da bambine”); si è accorta anche lei che qualcosa non andava, e ha proposto come attività il gioco di consapevolezza. E il gioco ha funzionato perché le bullette sono andate da Alberta e le hanno chiesto scusa: “Abbiamo capito di esserci comportate male, non vole- vamo ferirti”. “E tu cosa hai fatto?”, le ho chiesto. “Ma niente, mamma, sono le mie amiche, non posso non perdonarle!”. Certo, non che tutto sia risolto, ma oggi le cose vanno decisamente meglio».

Del resto, una sedia a ruote è arrivata sotto l’albero quest’anno anche per mio figlio. Babbo Natale gli ha portato infatti una pista di skateboard della Lego fornita di tutto ciò che serve per eventi strabilianti; tra le minifigure, c’è un atleta in sedia a rotelle. Perché Babbo Natale ha un nome e un cognome: una zia acquisita che acquista con cuore, lungimiranza e tanto cervello. È Serena, sempre lei.

Mio figlio fa compiere dei salti incredibili al suo skateboarder carrozzato, mentre la Barbie in sedia a ruote (sugli scaffali, precisa Pamela, si trova anche Ken seduto) è inseparabile da Alberta. Sono giochi che raccontano di una diversità che può essere un valore perché dietro ci sono bambini che hanno capito, con una naturalezza che ci fa ben sperare, l’assoluta normalità della diversità. Grazie a sua mamma, all’amica della sua mamma e a Toys (che ha fatto l’ordine), Alberta ha fatto la Rivoluzione.

Questo articolo è tratto da
Ombre e Luci n. 160, 2022

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Alberta e la Rivoluzione ultima modifica: 2023-01-11T11:33:07+00:00 da Giulia Galeotti

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