Diego (Stefano Accorsi) viene convocato da Paris (Thomas Trabacchi), responsabile del centro diurno che accoglie persone con fragilità psichica. I due hanno una conversazione e Diego cerca di spiegare all’esperto cosa, a volte, lo faccia innervosire (del resto Diego è stato appena licenziato dal ristorante in cui lavora come cuoco per aver messo tutto a soqquadro, dopo che un collega ha rivoluzionato la posizione della farina in dispensa). «Se io ho il telefono poggiato sulla parte destra del tavolo – dice per l’appunto a Paris –, perché tu dovresti spostarlo a sinistra?». Come a dire: «Che male può fare quel telefono a destra?». Un semplice spostamento può, infatti, rappresentare un problema. E per Diego, questa cosa che agli occhi di tutti è innocua, un problema, lo è sicuramente. Mentre la conversazione prosegue, tuttavia, c’è un particolare che ai più attenti non può sfuggire: lo stesso Paris, il cui telefono è stato utilizzato da Diego per l’esempio di cui sopra e dunque spostato, si infastidisce per quanto avvenuto e riposiziona, così, il cellulare nel modo corretto. Ecco, questa scena, una delle prime, di Marilyn ha gli occhi neri, il film di Simone Godano attualmente nelle sale cinematografiche, ne racchiude l’intero significato: siamo tutti matti; anzi, per meglio dire, non esiste dicotomia tra chi si professa normale e chi rientra in quell’etichetta, che perlopiù gli viene attribuita dalla società, di non normale.

Ma andiamo con ordine. Il centro diurno, alle cui riunioni Diego inizia a partecipare, è frequentato anche da Clara (Miriam Leone), la cui psicosi è quella di essere una bugiarda patologica. È grazie ai due, Diego e Clara, che però si concretizzerà una grande idea: dare vita, nel centro, a un laboratorio di cucina, poi ristorante, il Monroe, all’interno del quale chi presenta un certo disagio può lavorare e sì, accogliere il mondo di fuori, che spesso fa paura perché caratterizzato da una serie illimitata di pregiudizi. Il risultato non può che essere la dimostrazione di quanto un’impresa, che sembrava impossibile, possa diventare effettiva, realtà (quel tipo di imprese, tra l’altro, che Ombre e Luci racconta con costanza). In Marilyn ha gli occhi neri, pertanto, si squarcia, in maniera agrodolce e non banale, un vero e proprio tabù, attraverso la rappresentazione sul grande schermo, di ciò che molte volte si vuole tenere nascosto, di ciò che «si guarda ma non si vede»: ci sono le storture che fanno parte di noi, i cosiddetti scarti e scartati della e dalla comunità, le inadeguatezze in cui possiamo riconoscerci perché quella che pocanzi è stata definita fragilità mentale ci riguarda, non deve lasciare alcuno indifferente.

È insomma la storia, quella del film, di due e più solitudini che si incontrano e, grazie al potere della condivisione, riescono a salvarsi. «Io sono tutta sbagliata», dice a un certo punto Clara, rivolgendosi a Diego. Quest’ultimo risponde: «Tu vai bene così come sei». Accettarsi, quindi, senza doversi nascondersi o aver timore di affrontare il mondo, la vita.

Breve chiosa: quando chi scrive s’è recata a vederlo, il film, oltre alla paura di incorrere in una rappresentazione semplicistica del disagio mentale, ne aveva un’altra di paura: la possibilità, non remota, che la sala sghignazzasse, senza riflettere, davanti ai tic, alle manie o alle nevrosi dei personaggi. Così non è stato, in entrambi i casi: nessuno ha riso e l’opera – in maniera semplice e non semplicistica – ha avuto e ha il pregio di raccontare con forza quell’umanità spezzata che sì, è riuscita a bucare lo schermo e a lasciare qualcosa allo spettatore.

Questo articolo è tratto da
Ombre e Luci n. 156, 2021

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Quel che si guarda ma non si vede ultima modifica: 2021-11-29T10:04:10+00:00 da Enrica Riera

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