Mi ricordo molto bene il giorno in cui ho veramente preso coscienza del mio handicap. Mi trovavo nel giardino della ricreazione e una ragazza mi ha spinta in mezzo agli zainetti ammucchiati per terra, per vedere se sarei riuscita a rialzarmi. Tutti mi guardavano. Ero piena di vergogna. All’improvviso, la mia identità, il mio “io profondo”, ricevevano un colpo.

Da bambina, consideravo il mio handicap come una diversità tra le altre anche se era dura da portare: semplicemente non potevo fare questo o quello. Ma in quel momento ho cominciato a realizzare pienamente che non ero come gli altri.

Tre mazzate insieme: quella persona handicappata ero io: perché? Mi sento profondamente sola di fronte a questa sofferenza: perché? E durerà per tutta la vita: PERCHÈ?

Quell’incidente doloroso non faceva che risvegliare un malessere nascosto e diffuso. A quell’epoca, negavo completamente la trasformazione del mio corpo. Non potevo più guardarmi allo specchio. Mi vergognavo di quell’immagine così lontana da quella proposta come modello dalla società. Come molti altri adolescenti non facevo alcuna distinzione nei miei apprezzamenti: o tutto era geniale, o tutto era nero: “Zoppico, quindi sono brutta. In ogni caso non vale la pena di aver cura di me dal momento che non seduco nessuno.”

In realtà lo sguardo degli altri è stato vitale in questo passaggio di vita. Come ogni adolescente avevo bisogno di sedurre…ma non seducevo. Il flirt mi sembrava impossibile. Facevo fatica a capire o ad accettare ciò che mi sembrava sciocco o futile nelle reazioni degli altri…e allo stesso tempo, come avrei voluto essere sciocca e futile anch’io! Da subito ero stata confrontata con la serietà della vita, con il profondo: la persona che mi avrebbe amata lo avrebbe fatto per quella che ero e avrebbe imparato in seguito ad amare la mia apparenza. Mi sentivo incompresa, spostata, e all’improvviso mi chiedevo: “Sono normale?” Non solo ero diversa a livello fisico, ma anche a livello psicologico, cosa che per forza non mi sembrava positiva.

Sono passata davvero per momenti di abbattimento, di voglia di morire alla decima potenza. Mi abitava un sentimento di colpa: che cosa ho fatto per meritare ciò? Oppure: Ho fatto soffrire i miei genitori…E molta gelosia: mia sorella va alle feste, io no. Lei si occupa di bambini, io no…

Penso che durante l’adolescenza, la sofferenza dovuta all’handicap si interiorizzi nella misura in cui si accresce la sensibilità all’esterno. Bisogna stare molto attenti a non chiudersi in questi sentimenti e a non lasciare che la persona si chiuda in se stessa. Dialogare, proporre eventualmente un sostegno psicologico. Imparare a non vedere tutto nero, ad essere pragmatici e realisti: sei sicura di non poter metterti un bel vestito? Di non poter portare in braccio un bambino senza farlo cadere? Sì, è vero che non lo puoi tenere in braccio mentre cammini, ma se ti siedi su una poltrona? Esistono dei compromessi possibili che i genitori non propongono e di cui non hanno idea perché anche loro hanno paura.

Avevo anche un gran bisogno di compensare: dal momento che non potrò essere una ballerina, sarò una professoressa di lettere. Il desiderio è un motore potente, ma può anche essere pericoloso: il giorno in cui mi accorgo che sono un po’ debole anche in letteratura…realizzo che non serve a niente, nulla ricompensa.

All’improvviso mi rendo conto che la mamma non era più là per fare da paraurti, per difendermi di fronte al mondo esterno. Eppure, che bisogno immenso ho avuto dei miei genitori in quel periodo: luogo di ascolto, di affetto, sapevo che mi amavano incondizionatamente. Anche questo è un sostegno.

Mi piaceva in modo particolare ritornare con loro ai momenti della mia infanzia: le circostanze della nascita; quanto mi hanno amata i miei genitori, come si sono battuti perché io vivessi; quali progressi ho potuto fare; quale audacia, quale coraggio ho tirato fuori per diventare l’adolescente che ero: prova che ero capace, che avevo in me la forza e l’energia.

Un po’ più tardi, ma sempre adolescente, ho preso coscienza che il mio handicap poteva essere anche una ricchezza. Mi trovavo a un campeggio di giovani. Mi ero rifugiata nella cappella e piangevo…Ne avevo abbastanza di lottare. Ne avevo davvero abbastanza di essere sola a portare tutto quel peso davanti agli altri. E poi ho guardato Gesù e ho visto che Lui sulla croce viveva la stessa cosa che vivevo io…0 piuttosto, che ero io che vivevo la stessa cosa. Me ne faceva grazia! Sono stata come trafitta: in quel momento qualcosa è cambiata in me.

Se la presa di coscienza dell’handicap è particolarmente dolorosa durante l’adolescenza, non è un avvenimento che ha un inizio e una fine. Tutta la nostra esistenza è punteggiata da quei momenti, punti d’appoggio per avanzare, in cui confrontati con lo sguardo degli altri, ci poniamo la domanda: Perché io?

Cécile

(testo tratto da Ombres et Lumiére n.164)

Questo articolo è tratto da
Ombre e Luci n.103

Perché proprio io? ultima modifica: 2008-09-03T11:53:36+00:00 da Redazione

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