Il 9 Giugno abbiamo celebrato al «Carro» il battesimo di Maria, un momento che ha riunito intorno a lei, ai suoi genitori Matteo e Ivana, e alla comunità del «Carro» tutti gli amici, i parenti e le persone che, ognuna con il proprio modo e tempo libero, si sente vicina a quello che la comunità rappresenta.
È stato un giorno reso ancora più importante dal fatto che, insieme al battesimo, si festeggiavano i cinque anni dalla nascita della comunità, quindi insieme a Maria si festeggiavano in particolare Sabina, Viviana e Mimmo, i tre ragazzi disabili che di questi cinque anni di storia rappresentano il significato e il frutto. Io ho fatto parte soltanto degli ultimi quindici mesi dell’esperienza del «Carro» e non sono in grado di tirare un bilancio o di descriverne l’evoluzione; posso però cercare di esprimere il contenuto di uno stile di vita e di una quotidianità molto particolari e piuttosto diversi da quello che si vive nelle famiglie «normali».

Il mio primo contatto con il «Carro» è stato abbastanza casuale; infatti non conoscevo i componenti della comunità né facevo parte di gruppi di Fede e Luce dove la comunità è conosciuta; stavo però attendendo la risposta alla mia domanda di obiezione di coscienza. Durante questa attesa si cercano i contatti con enti dove si vuole svolgere il proprio servizio civile ed io stavo cercando la possibilità di vivere un anno di esperienza di vita comunitaria, un’esperienza che mi ha sempre affascinato e che la chiamata obbligata al servizio civile mi dava l’opportunità e forse anche il coraggio di sperimentare. In questa fase, attraverso la conoscenza con Lucia Bertolini, ho saputo dell’esistenza del «Carro», ho telefonato a Matteo, responsabile della comunità e sono andato a parlare con lui della possibilità di fare questa esperienza; insieme abbiamo concordato che prima di prendere una decisione era meglio conoscersi e che anche per me era opportuno che la mia buona volontà si confrontasse con la realtà che si viveva nella comunità; in particolare il mio modo di rapportarmi con i ragazzi, un tipo di relazione di cui non avevo esperienza. Così ho deciso di andare al «Carro» una volta a settimana per quello che in altri enti si chiama «tirocinio» mentre nel mio caso era una ricerca di approfondire la conoscenza reciproca tra me e la comunità. Abbiamo deciso che la cosa si poteva fare e abbiamo avviato le pratiche burocratiche che, per fortuna senza imprevisti, hanno fatto in modo che la settimana di Pasqua del ’95 iniziassi la mia esperienza comunitaria.

Al momento del mio arrivo la comunità era composta da Matteo, Ivana, Rosaria e i tre ragazzi Mimmo, Sabina e Viviana; la mia prima settimana è stata particolare: coincidendo infatti con il periodo di Pasqua, Matteo, Ivana e Rosaria avevano assoluto bisogno di qualche giorno di vacanza ma c era il problema che Mimmo, al contrario di Viviana e Sabina, non aveva la possibilità di andare a casa; così abbiamo deciso che potevo occuparmene io.
È stato un po’ il battesimo del fuoco: infatti senza molto tempo per acclimatarmi mi sono trovato in una casa nuova, responsabile di una persona che conoscevo poco e con cui dovevo passare una settimana cercando di inventare momento per momento il modo di relazionarmi con lui visto che non avevo grosse esperienze cui attingere. A posteriori devo dire che è stata una settimana fondamentale per il mio pieno inserimento al «Carro»; infatti, alla fine di questa settimana, ho capito che Mimmo mi aveva accolto oltre che come persona di casa, come uno di cui fidarsi ed è nata un’amicizia di cui sono molto orgoglioso.

Ho capito che Mimmo mi aveva accolto, oltre che come persona di casa, come uno di cui fidarsi ed è nata un’amicizia di cui sono molto orgoglioso

Finita questa settimana del tutto particolare, è iniziata la mia esperienza in comunità. La cosa più difficile per me è stata abituarmi ai ritmi e ai tempi della vita comunitaria; in particolare alla regolarità degli orari necessaria per dare punti di riferimento precisi ai ragazzi, in particolare a Sabina che in questo modo può capire come si svolge la giornata. Questa regolarità non è stata facile da rispettare (infatti Ivana dice sempre che quando cucino io si mangia mezz’ora più tardi, bene che vada) perché sono tendenzialmente disordinato. La cosa però che mi ha aiutato ad entrare in sintonia con gli altri, è stata la totale fiducia che ho sentito intorno a me da parte di Matteo, Ivana e Rosaria e il legame forte che si è immediatamente stabilito con i ragazzi. In particolare nel rapporto con loro per me è stata ogni giorno una scoperta e una ricerca di avvicinamento: da parte mia ho cercato di entrare in relazione con loro aspettando che fossero Mimmo, Viviana e Sabina a farmi entrare nel loro quotidiano, ad accogliermi come amico con cui vivere sotto lo stesso tetto. Del primo approccio con Mimmo ho già detto: per me è stato forse il più facile dei tre con cui rompere il ghiaccio. Con Viviana e Sabina c’è voluto un po’ più di tempo: Viviana, infatti, pur essendo da subito molto affettuosa, ha un bel caratterino e bisogna essere molto delicati con lei se non si vuole entrare nel gruppo dei «rompiscatole», cosi io mi facevo spiegare da lei cosa preferiva fare, come passava il tempo e le chiedevo di insegnarmi a cucinare e a fare le faccende di casa; solo con il tempo quindi ho conquistato la sua fiducia come persona di appoggio e di riferimento anche se tuttora Viviana dice di me: «quello non è bono a fa’ niente» e non ha tutti i torti.

Con Sabina è stato un discorso a parte: con Mimmo e Viviana infatti potevo usare i miei consueti canali di comunicazione: la parola, i gesti, il tono della voce, le espressioni del viso; con Sabina questi canali erano «a senso unico»: lei infatti sorride, urla quando è contenta o quando è nervosa, si rifiuta di fare qualcosa che non le va, pizzica quando vuole scherzare o quando vuole sfogare un momento di rabbia: insomma si fa capire in modo chiaro. Io mi sono trovato a potere usare solo il tatto per farmi capire, perché lei sente pochissimo, non vede e non parla. Il rapporto con Sabina, la ricerca della relazione tra me e lei è stata forse la parte più ricca dei miei primi mesi al “Carro”: con Sabina non sono tante le attività da svolgere; quella più costruttiva è di farla muovere, in particolare camminare e io sfruttavo queste lunghe camminate per farmi conoscere e riconoscere, giocavo con le sue mani, facevo sentire la mia voce e giorno dopo giorno mi sono sentito sempre più vicino a lei e vedevo dal modo di prendermi il braccio, di cercarmi con le mani che aveva capito che c era una persona nuova con cui passava il tempo. Quello che tuttora un po’ mi corrode è l’incapacità di capirla nei momenti difficili: nei suoi momenti di rabbia o di dolore, ci si trova spiazzati senza sapere come starle vicino visto che spesso in questi momenti rifiuta il contatto fisico, l’unico canale di comunicazione che sappiamo usare con lei. A riguardo non mi si cancella dalla mente l’immagine della prima volta che ho visto Sabina piangere: una esperienza in cui mi sono sentito assolutamente impotente, nonostante il mio desiderio di comunicarle affetto e vicinanza, proprio perché non mi permetteva di starle seduto a fianco o di prenderla in braccio; in queste situazioni ci si rende conto della sofferenza, del dolore e forse anche della solitudine che può vivere una persona come Sabina: un aspetto che nei tempi frenetici della quotidianità si può dimenticare.

Passando al mio rapporto con gli altri componenti della comunità, Matteo, Ivana e Rosaria, devo dire di non avere trovato molte difficoltà di affiatamento perché mi sono sentito immediatamente accolto nel senso vero della parola: non dovevo soltanto adeguarmi ad una realtà già costruita, ma da subito mi è stato chiesto di «entrare» in comunità con tutta la persona contribuendo, con il mio modo di vivere e vedere le cose, al cammino del “Carro”. Questa immediata apertura e accoglienza mi hanno aiutato ad aprirmi a mia volta a tutto quello che si viveva in comunità, a non avere preconcetti ideologici su nessuno degli aspetti che si vivevano, a cercare di accogliere le persone che avevo davanti come persone di cui fidarmi e con cui intraprendere subito un percorso comune.
Prima di questa esperienza, per me condividere significava avere idee e ideali comuni, mettere in comune qualcosa di astratto, a questo adesso aggiungo la condivisione materiale: avere la stessa tavola, lo stesso portafoglio, gli stessi spazi, gli stessi tempi: questo è condividere e da questo non si può prescindere nella vita comunitaria. Con le persone con cui si condivide in questo modo – nel mio caso Matteo, Ivana, Rosaria. Mimmo, Viviana e Sabina – si costruisce un legame interiore difficile da spiegare.

La sensazione che mi porto addosso è quella di avere una nuova famiglia con dei legami affettivi che si possono vivere solo quando si sente di condividere tanto; e vivere sotto lo stesso tetto, mangiare insieme, collaborare ogni giorno, pregare insieme, scambiarsi le idee, chiacchierare, giocare insieme, sono tutti aspetti di condivisione quotidiana che al “Carro” si vivono e che uniscono le persone.
Vorrei aprire un’ultima parentesi sulla preghiera, un aspetto che nella mia vita di cristiano anche impegnato era sempre rimasto un po’ ai margini. Al “Carro” si prega tutti i giorni; come dice Mimmo «è una comunità di religione»; si prega la mattina appena alzati, prima dei pasti, la sera e questa normalità e consuetudine della preghiera mi ha fatto riacquisire una componente della fede che avevo accantonato: non siamo soli nel nostro percorso di vita ed è importantissimo, soprattutto in un’esperienza particolare come quella della comunità, verificarsi continuamente sul senso delle scelte e sulle forze che si hanno a disposizione. Il momento di preghiera può dare questa occasione di verifica quotidiana, questa possibilità di fermare la giornata ed entrare un po’ dentro di noi per capirci un po’ di più e dare più senso a quello che si vive. Al “Carro ‘ la preghiera viene vissuta in questo modo, molto libero e molto intenso e per me è stato un riscoprire qualcosa di molto importante.
A questo punto spero di avere dato un’idea di quella che è stata la mia esperienza di vita nella comunità «Il Carro», e spero anche di essere riuscito a comunicare quanto quest’anno mi è rimasto dentro come patrimonio di verifiche individuali, ma soprattutto come costruzione di relazioni di amore e condivisione con le persone con cui ho vissuto. Il mio desiderio è che altri abbiano la curiosità e la possibilità di sperimentare la vita comunitaria magari prendendo (come ho fatto io) l’opportunità del servizio civile per «guadagnare» un anno che in partenza può sembrare un anno perso.

Filippo Ascenzi, 1996

Ho guadagnato un anno al «Carro» ultima modifica: 1996-09-22T08:50:47+00:00 da Filippo Ascenzi

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