Le coincidenze non finiscono di stupirmi. Eravamo alle prese con gli articoli da presentare in questo numero dedicato alle persone che non sentono. Un giorno di agosto, ho trovato sul tavolo della redazione un libro dalla copertina verde e nera: «Una giornata con me — Vita di un insegnante sordo» di Renato Pigliacampo, edito dalla Claudiana di Torino. La lettera che lo accompagnava, chiedeva di presentarlo su Ombre e Luci.

L’ho letto d’un fiato. Avevo fra le mani una testimonianza scritta in prima persona da chi vive un’esperienza di cui quasi tutti noi, udenti, non abbiamo la più pallida idea.
Sono entrata con tutta me stessa in queste pagine che ci parlano in diretta di cosa significhi «non udire», vivere nel silenzio, essere privi di questo sommo bene che è la parola per ascoltare e comunicare con i nostri simili.

Mi sono lasciata afferrare dalle parole dello scrittore, uomo colto, sposato, con due figli. Ho cercato di immedesimarmi nel suo sforzo di aprire le finestre sulla sua vita sofferta, di lotta, di amore, di passione, di desiderio soprattutto di comunicare il suo messaggio: «Ho sempre lottato per una vita il più possibile normale ma, sul più bello di ogni fatto o al raggiungimento del traguardo, il Silenzio ha distrutto o distrugge, con la sua cruda presenza, le lotte portate avanti tenacemente».
Ho finito la lettura del libro con la certezza che le sue parole dovevano prendere il posto delle mie. Lascio dunque a lui, con gratitudine, il compito di aiutarci a riflettere su questo prezioso bene di cui migliaia di persone sono prive e che non ci meravigliamo di possedere: l’udito.
Le poche frasi che proponiamo, spero daranno a molti il desiderio di saperne di più e soprattutto la consapevolezza che molto dipende da noi per facilitare la comunicazione con loro ed esprimere con l’attenzione nei loro confronti la nostra solidarietà.

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«Non aver chiara la situazione è spesso la tragedia del sordo. Quante volte mi son fatto dare del pazzo o del nevrotico reagendo a situazioni capite male e interpretate leggendo sulle labbra altrui la terza parte delle parole necessarie per giudicare o per dare un parere! Eppure reagii con furia, rabbia incontrollata, sbraitando con tutte l’aria pompata dai polmoni. È difficile chetare il sordo arrabbiato: è una forza della natura scatenata dove ogni udente diviene un ostacolo da travolgere perché, appunto, udente e che non fa nulla per facilitare la comunicazione del sordo grave».

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«La persona che ha la fortuna di udire non suppone il tour de force che la persona sorda profonda sostiene ogni giorno, in una società verbale come l’attuale».

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«Certo, con gesti specifici siamo in grado di far comprendere il significato di “ti voglio bene”, oppure “ti amo”. Di solito si procede così: si porta la mano destra all’altezza del cuore, a contatto dei pettorali: l’atteggiamento deve essere di remissività per l’altro o l’altra. Poi, a mano aperta, le dita allargate, si abbandona il contatto pettorale e si fa avanzare la mano verso la persona amata (tracciando un invisibile cerchio tra sé e l’altro/a). Tutta l’espressione mimica tende a far capire alla persona amata che le si dona la cosa più importante: il cuore, fulcro della vita.

Anche parecchi giovani udenti, con attitudine al mimo e alla curiosità culturale, scherzano tra di loro con simili gesti verso l’amica. Ma chi ha udito, chi ha comunicato gli affetti e le idee con le parole bisbigliate al lobo dell’orecchio della persona amata, si scoprirà mutilato nel manifestare i più segreti sentimenti dell’animo col gesto, che resta un ripiego della parola parlata, della poesia che è nella voce, quando pronuncia “ti amo”».

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«Luca insiste nel raccontarmi le ore antimeridiane passate all’asilo. Ha una bella maestra. Ne è orgoglioso. Parla tra un boccone e l’altro e, mentre dice, china la testa per portare il cibo alla bocca: movimento che mi impedisce di leggergli le labbra e, quindi, di comprenderlo. Anzi, delle parole sono travisate. Ogni mio sforzo intuitivo per completarne il significato è vano. Luca, credendo che lo faccia apposta, si arrabbia gridando a squarciagola (così mi pare): “Papà, la maestra! la maestra!”.
Con lo sguardo cerco aiuto in Delphine per saper ciò che dice il mio bambino. Ma ora non ci segue, impegnata com’è con le vivande sul fornello a gas… “La maestra, la maestra!” insiste il piccolo; è lì lì per piangere e rimproverarmi col musetto corrucciato la mia incomprensione delle sue parole. Luca fa un ultimo sforzo tenace, ammirevole nella chiarezza sillabativa…, ma è inutile.
Perdona, bambino mio! Intende. Mi guarda a lungo in silenzio. Poi inizia a parlare con il fratellino in una lingua nota solo a loro. Sino a quel momento Marco aveva seguito la scena pensoso e perplesso, come se intuisse una minaccia incombente anche sul suo futuro. Ora devo dire che l’esclusione toccatami con moglie e figli udenti non mi addolora in sé, mi prostra per l’incomodo che la sordità crea in seno alla famiglia. È un dispiacere mio!»

Mariangela Bertolini, 1989

«Anche se non ho voce, anche se non sento…» ultima modifica: 1989-06-22T12:22:28+00:00 da Mariangela Bertolini

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