Articolo n. 2 della Dichiarazione dei Diritti generali e speciali degli handicappati mentali, adottata dalla Associazione della Lega Internazionale della Società per handicappati mentali. 24 ottobre 1968
L’importanza di questa dichiarazione è evidente per tutti noi; ma dove e come si realizzerà meglio?
Non pretendiamo qui né di stabilire l’ideale, né di fare il punto complessivo della situazione reale. Abbiamo soltanto cercato, attraverso qualche testimonianza e qualche visita nelle scuole (troppo poche) di sottolineare che non c’è una soluzione unica che vale per tutti e per sempre.
Per ogni bambino la scelta dipende da tante cose.
Dipende dal tipo di difficoltà del bambino.
Dipende dalla sua età.
Dipende dal paese o quartiere in cui abita.
Dipende dall’orario della scuola.
Dipende dal lavoro della mamma.
Dipende dalla maestra e dal personale della scuola.
Dipende da tante altre cose…
Allora ci guida l’interesse del bambino e l’esame della realtà.
Certe volte sarà la scuola del quartiere, la scelta che conviene.
Questa è l’esperienza di Agnese Malatrasi
“…ognuno si sente bravo”
Agnese è stata maestra in una scuola speciale per diversi anni, poi è passata alla scuola normale come maestra di ruolo. Grazie alla sua esperienza e ad una particolare predisposizione ha accolto con grande fervore l’inserimento di bambini con particolari difficoltà nelle sue classi.
La prima classe che ha avuto e che ha portato fino alla quinta elementare è ora in 3 media ed è valutata in modo molto positivo. Quest’anno la sua classe è una 3 elementare e l’anno scorso vi è entrato come nuovo alunno un ragazzo di 11 anni che non sapeva ancora né leggere né scrivere, andando soggetto periodicamente a crisi violente che lo costringevano a passare la maggior parte del tempo fuori dall’aula con la maestra di sostegno.
Ora la direttrice si meraviglia di non vederlo più nei corridoi; completamente inserito tra i suoi compagni di classe fa rapidi progressi anche dal punto di vista dell’apprendimento.
Da poche parole scambiate con Agnese si riportano diverse impressioni; si sente di avere davanti una persona dotata di particolare entusiasmo, piena di vitalità e di creatività, che conduce la classe con concetti originali.
Come maestra dà grande importanza alla musica; incoraggia a cantare tutti, ma particolarmente i più stonati sostenendo che non esistono bambini stonati, e di fatto alla fine cantano tutti benissimo.
Ha abolito i quaderni (si scrive soltanto su fogli o cartoncini), porta quasi ogni giorno la classe fuori della scuola a visitare laboratori, amici, contadini, persone sole o ammalate.
Nella classe non vengono represse l’aggressività e le lotte: si vigila quel tanto che impedisce che si facciano male, ma poi se ne parla. Si mette in luce che la cosa importante è essere amici nell’animo, essere pronti a prendersi per mano; meglio litigare e volersi bene piuttosto che comportarsi in modo irreprensibile e coltivare sentimenti malevoli.
Agnese crea grande solidarietà e amicizia tra tutti i genitori dei suoi alunni che, dopo un primo periodo di possibile perplessità e dubbio, finiscono per essere tutti soddisfatti e orgogliosi dei loro ragazzi.
La fede incrollabile di questa maestra nei suoi bambini finisce per essere veramente contagiosa.
Interpellata sul suo metodo, Agnese scrive: “Il mio impegno nella scuola è fatto di un immenso desiderio di rendere felici i bambini, di far loro trascorrere delle ore piacevoli, di portarli a diventare fra loro veramente amici. A detta di molti ho dei bambini simpatici, gioiosi e sensibili a tutte le situazioni che vengono a toccare con mano nell’esperienza diretta fatta di contatti quasi quotidiani con la vita del paese.
Scrivono tutto quello che vivono, che sentono, scrivono soltanto esperienze. Le letture, le esercitazioni matematiche le ho fatte sempre partire dal concreto, dal vissuto, dall’esperienza che da principio era gioco, divertimento. Giocando, per esempio, ho trascorso tutto il primo quadrimestre della prima elementare senza preoccuparmi di insegnare loro a leggere, a scrivere, a far di conto, ma cercando che tutti parlassero tutti cantassero, tutti rimassero, tutti disegnassero ecc. ecc., tutti si sentissero partecipi della vita della classe.
Non ho mai corretto nessun componimento ma ho continuato a farli lavorare tutti qualunque fosse il risultato che non è mai stato sottolineato da un giudizio ma sempre lodato e applaudito.
Ho sempre cercato di capire quando il bambino era entusiasta di fare qualcosa e ho sempre desistito di far qualcosa che non fosse gradito al bambino perché per me l’apprendimento vi può essere soltanto se è frutto di interesse, di gioia, di soddisfazione.
Ho sempre accettato da ognuno quello che mi ha saputo dare e ognuno si sente bravo e non si sente diverso dagli altri.”
Ma l’esperienza della scuola pubblica può anche essere disastrosa. Margherita racconta…
“… è più forte di me…”
Vennero gli operai a ridipingere le pareti e ci ammucchiammo, due-tre classi, in un’aula.
Io andai nella sala-cinema con un collega che aveva un bambino handicappato, perché si ritenne opportuno il mio aiuto in attività musicali e psicomotorie. Il bambino handicappato si chiamava Rodolfo: assaliva i compagni all’improvviso con un’aggressività spaventosa, mordeva, urlava, si rotolava per terra, poi aveva momenti di calma e allora riuscivamo a rilassarci tutti un poco.
Cominciò un periodo d’incubo che doveva durare due mesi. Le classi erano 2° elementari e anch’io avevo i miei problemi perché quattro dei miei alunni erano definiti ‘caratteriali’. Con molta fatica ero riuscita ad aiutarli ad inserirsi e alla fine limitavano abbastanza le loro stranezze.
A contatto con il bambino handicappato tutto il lavoro che avevo fatto andò a rotoli e tutti si scatenarono in modo selvaggio. Le classi si spaccarono in due: da una parte Rodolfo, i miei quattro e qualche altro bambino difficile che approfittava della situazione, dall’altra i bambini “normali” impauriti, assaliti, spesso malmenati.
I primi giorni fu da impazzire. Pian piano lo stato di continua ansia in cui vivevamo cominciò a produrre dei danni: dal punto di vista “scolastico” eravamo praticamente azzerati perché non si riusciva a realizzare il benché minimo lavoro, ma dal punto di vista sociale. Avevo il terrore che i bambini si facessero male. Rodolfo gradiva all’improvviso mordendo o picchiando con oggetti o cercava di ficcare negli occhi matite e penne e io, certo con atteggiamento sbagliato, ero in continua difesa degli altri bambini, tesa e preoccupata.
Si verificarono preoccupanti fenomeni di rifiuto (vomito o diarrea mattutina, enuresi notturna, sonni agitati, ecc.) e si posero preoccupanti interrogativi morali: (È male rifiutare chi è diverso, ma perché devo stargli vicino? essere buoni è una scelta allora perché mi costringono? ecc. ecc.)
Una volta rimesse a posto le aule ci vollero alcuni mesi per rimettere a posto le classi.
La nostra scuola è stata tra le prime ad accogliere i bambini handicappati non per un senso umanitario, ma per la debolezza di chi era, a quel tempo, a capo dell’istituto, che ebbe paura ad opporsi alla manovra politica e non seppe agire con energia.
Così ben 11 bambini handicappati furono inseriti in una scuola priva di équipe specializzata, di aiuti, di aule attrezzate, di palestra, di giardino.
Problemi enormi di cui tutti discutono e che nessuno mai, in concreto, tenta di risolvere.
Per quel che mi riguarda ammetto la mia incapacità di affrontare simili situazioni: è più forte di me. Ho un terrore incontrollato quando guardo una persona che ha un handicap mentale e non riesco a comunicare, a capire, a leggere le sue intenzioni negli occhi, a immaginare quali potrebbero essere le sue reazioni. Non che non abbia provato.
All’Istituto Magistrale l’insegnante di pedagogia era una fervente ammiratrice del prof. Montesano e ci portò diverse volte a visitare la scuola per stimolarci a prendere il diploma per scuole speciali, ortofreniche, ecc.
Non riuscii a sopportare la visita, ad un certo punto fuggii, nonostante il fortissimo senso di colpa e di vigliaccheria. Non andai mai più né presi il diploma speciale.
Ho frequentato un corso di aggiornamento sull’inserimento dei bambini handicappati e corsi di giochi bellissimi chiacchiere di persone che si bambini handicappati fanno una carezza e non sarebbero capaci di farli giocare neppure per mezza ora; corsi di teorici che stanno dietro a un tavolo pieno di libri e non hanno provato la scuola viva neppure per un giorno.
Ho un diploma di allenatore fisico e sportivo con relative parti di studio riguardante le possibilità di recupero dei bambini handicappati (molto poco in realtà).
Eppure sono sempre e solo una semplice maestra elementare qualificata dallo stato per insegnare ad alunni non portatori di handicap, che nonostante la buona volontà continua ad avere la paura e non riesce a vincerla.
Due settimane fa, nella mia 1° elementare è venuto M., bambino mongoloide una creatura affettuosa e aggressiva solo nel senso dell’espansività. È stato accolto con grande apertura dagli altri alunni che subito, sin dai primi contatti granatici, si sono accorti del compagno diverso, e M. si trova benissimo.
Io stranamente non ho paura e affronto le situazioni con calma, ma forse dipende solo dal fatto che finora M. ha avuto atteggiamenti prevedibili ed è comunque un bambino di 3 anni.
Purtroppo ha una madre che respinge l’idea di avere un figlio handicappato, lo considera “un po’ lento” e pretende da lui prestazioni al di sopra delle sue possibilità mentre da me pretende miracoli; cioè non vuole rendersi conto che i progressi saranno lentissimi e su tempi assai lunghi e che martellare per ottenere di più è proprio il contrario di quello che si deve fare.
Per ora sono riuscita a destreggiarmi: la classe ha avuto attività comuni e si è lavorato molto sullo schema corporeo e in fase ludico-propedeutiche, ma andando avanti la differenziazione diventerà sempre più marcata ed evidente e non so cosa succederà.
L’attuale problema è che la classe non è ancora organizzata con l’autonomia sufficiente a permettere svolgimenti individuali o individualizzati e devo trovare una soluzione di uscita perché è ormai il tempo di affrontare un apprendimento vero e proprio: lettura, scrittura, numeri, e M. non è assolutamente in grado di seguire.
In parole molto povere devo riuscire a scoprire un interesse tanto forte da tenerlo occupato mentre tutti gli altri lavorano, in modo che non disturbi l’applicazione dei compagni, ma che non si offenda perché finora ha sempre rifiutato di fare cose diverse dai compagni e se non riesce rimane malissimo.
Ho avuto molti consigli che ho provato a realizzare ma con eccessiva difficoltà e scarsi risultati.
Cercherò ancora con fiducia e spero di farcela nel miglior modo possibile.
Margherita, 1981
Questo articolo è tratto da:
Insieme n.28, 1981