Questa è la storia di una psicoterapeuta francese che curava i pazienti in depressione con il metodo Vittoz. La depressione isola chi ne è colpito vive in un cerchio. E necessario che egli apra questo cerchio con dolcezza e impari di nuovo a sentire la vita, a vedere gli altri e ad accettare se stesso. Perché non in cucina?

Quando la depressione è grave, o quando una persona è particolarmente fragile può succedere che occorra un ricovero in clinica psichiatrica. È una malattia sconvolgente: abbiamo visto crescere un bambino, lo abbiamo visto studiare bene e persino brillantemente, abbiamo fatto sogni e progetti su di lui. Ed ecco che tutto crolla. La convalescenza sarà lunga e dolorosa; ci saranno ricadute, fasi di scoraggiamento, momenti di incertezza per il futuro. Nel 1989 avevo in cura due giovani di circa trent’anni. Uno era ingegnere commerciale, l’altro aveva studiato fino agli esami di maturità. Entrambi avevano passato parecchi periodi in clinica psichiatrica e non mi sarebbe stato possibile aiutarli veramente con una seduta di un’ora alla settimana. Bisognava che fossero occupati con mani, testa e cuore. Sappiamo da Vittoz che il cervello e il sistema nervoso sono in stato di riposo quando un lavoro manuale assorbe la percezione dei cinque sensi. Perché allora non considerare la cucina come 1 occupazione giusta dove il gusto, l’odorato, la vista, l’udito e il tatto sono sollecitati in modo costante? Cucinare significa mettersi in contatto con la vita, condividerla con altri e imparare a concentrarsi: una disattenzione può procurare tagli e bruciature.

Quando capii che Chi aveva spinto e voluto tutta questa storia stava lassù, misi da parte i dubbi, chiusi lo studio medico e mi immersi nella crema pasticcera.

Queste considerazioni furono il presupposto della nostra attività. Tutto iniziò con l’acquisto di quattro tortiere e di qualche cartone per dolci. A casa mia, due volte alla settimana, incominciammo a fare torte. Erano fatte alla buona e i nostri amici furono indulgenti nel giudicarle. I due apprendisti cuochi diventarono cinque; la mia cucina diventò troppo stretta e andai a trovare il sindaco. 11 mio più grande desiderio era che i giovani per i quali avevo iniziato questo nuovo tipo di cura guarissero, ma non avevano previsto che ne sarebbero arrivati altri. Non avevo nemmeno l’intenzione di farmi troppo coinvolgere in questa nuova avventura. Lo studio medico andava bene, la mia vita era organizzata tranquillamente. Andai perciò al municipio e chiesi «con decisione» una cucina. In cuor mio avevo però la certezza che mi sarebbe stato risposto di no e che sarei stata costretta a chiedere ai genitori che si alternassero a darmi il cambio per mandare avanti l’iniziativa. Al municipio invece mi fu risposto di sì: potevano imprestarmi una cucina. Un gruppo di amici decise di aiutarmi. Fu creata un’associazione con un presidente affettuoso e capace, ricevemmo i preziosi consigli di un grande rosticcere di Parigi, arrivarono altri giovani e incontrammo Michel Gilbert, allora segretario di Stato… Sembrava che bastasse domandare…

Centro di aiuto attraverso il lavoro

Quando capii che Chi aveva spinto e voluto tutta questa storia stava «Lassù» misi da parte i dubbi, chiusi lo studio medico e mi immersi nella crema pasticcera. Per due anni e mezzo lavorammo tutti come volontari, sia i giovani che gli istruttori, e iniziammo a far funzionare la nostra cucina. Ora essa ha un nome, «I fornelli di Marta e Maria», ed è diventata un «Centro di aiuto attraverso il lavoro». Vi sono occupati per mezza giornata ventitré giovani adulti. Tutti hanno fatto studi normali, fino al livello universitario, e sono convalescenti da malattie mentali. L’omogeneità del livello culturale è necessaria, perché questi giovani debbono ritrovare i loro punti di riferimento, e ricostruire un’immagine di se stessi. La cucina è per loro un periodo intermedio tra l’ospedale diurno e l’ambiente abituale di lavoro. In sei anni quindici giovani ci hanno lasciati dopo aver ritrovato una salute sufficientemente stabile da poter fare progetti e avere altri desideri. Alcuni hanno ripreso gli studi, altri hanno trovato lavoro. Qualcuno ha preferito rimanere nel nostro ambiente protetto, ma lavorando a tempo pieno. Tutti hanno imparato a gestire meglio la malattia. La vita per loro ha avuto veramente un nuovo inizio!

Oggi abbiamo più di mille clienti

Se vogliamo ora considerare questa iniziativa con gli occhi del commerciante non possiamo che sentirci soddisfatti: la nostra clientela si è sempre più affezionata ed è diventata fedele. Oggi abbiamo più di mille clienti. Siamo grati a tutti coloro che fin dall’inizio, con critiche costruttive, ci hanno permesso di raggiungere un buon livello professionale! L’anno scorso le nostre entrate hanno superato ogni aspettativa e la cucina di cui oggi ci serviamo è veramente nostra, frutto del lavoro di noi tutti ! Gli utili sono destinati ai momenti di svago e all’alloggio dei nostri giovani. Perché questo nome, «I fornelli di Marta e Matteo?» Ebbene, non pensate anche voi che una cuoca e un esattore di tasse siano buoni protettori? – Suzanne Vidon, 1996 O. et L. n. 22

I fornelli di Marta e Matteo ultima modifica: 1996-03-03T10:07:51+00:00 da Redazione

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