Quella banale ammirazione che dimostriamo verso le persone belle d’aspetto e l’altrettanto ovvia disapprovazione manifestata verso chi tale non è, chi, esteriormente, non è proprio tutto «regolare» secondo schemi tradizionali, col passare degli anni, mi hanno sempre più colpita, irritata, amareggiata.
Questo mio stato d’animo sarà forse dovuto alle molte persone incontrate che mi hanno palesato il loro sconforto per non essere «come gli altri vorrebbero». Una delusione di fondo le invade, le pervade, le obbliga a non sentirsi, mai, completamente felici di essere al mondo.

O sarà forse dovuto a un senso di ingiustizia che mi obbliga a riflettere su come far cambiare rotta a tutti coloro che, senza volere, quasi inconsapevoli, ripetono: «Ma che bel bambino!» «Che bella ragazza!» «Che splendido giovane!»
O sarà perché riconosco di portare in me una profonda amarezza per aver provato io stessa, con timore e ribellione insieme, gli sguardi indiscreti e disapprovanti sulla mia figliola.
Amarezza che provo ancor di più ora, quando mi presento «agli altri», con a fianco una mia cara amica (non proprio secondo i canoni) e vedo l’imbarazzo e il disagio disegnarsi sui volti che cercano, invano, di rimanere impassibili.
Mi direte: ma è naturale! Oh sì, lo so bene; ma non sarebbe più naturale — almeno quando si è ottenuta la maggiore età —predisporsi ad avere uno sguardo benevolo; ad atteggiare il nostro viso a quello che il cuore, immediatamente, dovrebbe suggerire in tali circostanze: un largo sorriso, pieno di attenzione verso ciò che dietro l’aspetto alberga e che aspetta con ansia, di essere rispettato e amato, per la persona che dentro è perfetta e non per quello che fuori appare. E fin qui, passi; sono le leggi del mondo, alle quali io preferisco non adeguarmi se sono così sciocche e fatue.

Quello però che mi sembra profondamente ingiusto — e sono certa che avrò dei seguaci fra chi mi legge — è che questo stesso atteggiamento lo si trovi in chiesa; alla presenza di quel Dio che — come dice Isaia — «ha l’aspetto di colui di fronte al quale si distoglie lo sguardo, tanto è sfigurato».

Può infatti ancora accadere — spero che accada sempre meno — che al momento di ricevere i sacramenti (che sono la continuazione dei gesti di Gesù per ognuno di noi, bello o brutto, buono o cattivo) si abbia ritegno a far partecipare «con gli altri» i bambini, gli adolescenti che, visibilmente, portano i segni di quell’«Uomo dei Dolori»; quelli, quindi, che sono più simili a Lui degli altri.

Si proclama e si predica a parole la predilezione di Gesù per loro, ma la si smentisce nella pratica.

Molto cammino è stato fatto, e una parte non piccola di questo cammino la si deve ai tanti giovani, ai molti genitori (di figli «normali»), a qualche sacerdote, che hanno capito e si sono messi a fianco dei loro amici «speciali»; per non lasciarli soli ad affrontare gli sguardi ancora non convertiti degli altri; hanno scoperto che, al di là dell’aspetto, c’è un cuore da guardare con occhi diversi; che l’apparenza spesso nasconde persone profondamente ferite, ma ancor più profondamente capaci di amare e di farsi amare.
Ci auguriamo allora che ogni vescovo, ogni sacerdote, a imitazione di quelli fra loro che lo hanno già fatto, sappiano «spalancare» le porte delle loro chiese a chi porta «visibilmente» su di sé la somiglianza con il Cristo.

Mariangela Bertolini, 1995

Questo articolo è tratto da
Ombre e Luci n.52, 1995

Sommario

Editoriale

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Quelli più simili a Lui ultima modifica: 1995-12-30T16:24:02+00:00 da Mariangela Bertolini

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