Quando l’oculista ha diagnosticato che nostro figlio Tomaso era affetto da cataratta, credo di aver capito il passo biblico che definisce fortunato quel seno che non ha mai allattato.
Tutta la gioia provata nel nutrire cinque anni prima Sara e adesso Tomaso, d’un tratto si trasformava in una lama sottile che mi trafiggeva dentro. Improvvisamente mi trovavo a comparare la gioia della prima volta che avevo tenuto fra le braccia Sara e mi era venuto spontaneo di pensare che i suoi occhi avrebbero visto anche per me, con il momento in cui, stringendo Tomaso, mi era venuto da piangere perché non riuscivo a formulare lo stesso pensiero anche rivolto a lui. Ne avevo incolpato le crisi depressive puerperali, ma ora, dall’oculista, capivo che si era invece trattato di una strana consapevolezza.
Le ricerche effettuate da sposini avevano dato risultati rassicuranti circa la possibilità di trasmissione ereditaria della mia malattia, ma dentro di me la paura era rimasta. Avevamo già deciso di adottare dei figli quando, durante il periodo del terremoto del nostro Friuli, i freni inibitori erano caduti e mi trovai incinta. Una gravidanza da difendere da subito, dato che la prima espressione del medico fu il constatare che, viste le mie condizioni, mi sarebbe senz’altro stato possibile abortire senza difficoltà.

Cara piccola Sara, non ti conoscevo ancora ma ti amai subito assieme a tuo padre. Una gravidanza difficile dal sesto mese, ma con la tua nascita ho provato tanta gioia che ho subito dimenticato quel periodo. Papà aveva frequentato con me il corso di preparazione al parto e aveva imparato a fare per te tutte quelle piccole cose che un neonato richiede e che io, non vedendo, non potevo. Mi assisteva nei primi bagnetti, anzi il primo fu proprio lui a fartelo perché io ti sentivo così fragile che temevo di romperti. Ti puliva gli occhi, il naso, le orecchie, ti medicava l’ombelico, ti tagliava quelle unghiettine delicatissime…
Poi desiderasti un fratellino e a noi parve giusto aumentare famiglia. I tuoi occhi erano sani e ci sentimmo rassicurati. Fu così che chiamammo al mondo Tomaso. Anche questa seconda gravidanza fu per me difficile e mi costrinse molti mesi a letto fra casa e ospedale. Tomaso venne alla luce un po’ prima del previsto e i medici mi consigliarono di far attenzione a non rimanere di nuovo incinta prima che fossero passati almeno due anni.

Partorii assieme alla nostra gatta e quando, caro Tomaso, ti portammo a casa, tua sorella fu felicissima di averti ma commentò che la gatta era stata più brava della mamma perché aveva fatto tre piccoli, e la mamma soltanto due.
Eri molto minuto ma crescevi in fretta, solo che il pediatra non mi rassicurava quando affermava che tutti i neonati preferiscono stare a pancia in giù. Tu a pancia sotto ci stavi proprio sempre, avevi imparato a girarti prestissimo e anche nel carrozzino, a passeggio, stavi così, e avevi imparato prestissimo anche a buttarti il bavagliolo sul viso quando non stavi a pancia in giù. Nessuno lo sapeva, ma quando avevi tre-quattro mesi io già, in cuor mio, sapevo che i tuoi occhietti non funzionavano bene. Mi ribellavo a quel pensiero e tacevo con gli altri e, nei limiti del possibile, anche con me stessa, quasi ad allontanare quella realtà che non potevo, non volevo accettare. Del resto, pur avendo sposato papà per vero amore, fin da ragazzina mi ero imposta di non innamorarmi mai di un ragazzo non vedente, per non rischiare di metter al mondo figli che potessero soffrire quanto avevo sofferto io in tanti anni di collegio.
Poi Lidia, un’amica che frequentava l’ultimo anno di Medicina, trovò il coraggio di consigliarmi di non attendere i tuoi sei mesi per ripetere il controllo oculistico programmato. Papà, del resto, aveva già cominciato a vedere nei tuoi occhi, a luce radente, un’opacità chiara che non gli piaceva, e non aveva il coraggio di dirmelo, ma accolse con gran sollievo il consiglio di Lidia perché così poteva non impensierirmi ulteriormente.
L’oculista confermò. Cataratta nucleare bilaterale.
Eri praticamente cieco e bisognava farti operare al più presto per lasciar passare la luce verso le tue retine, in pieno periodo maturativo. Mi sentii morire. Improvvisamente vissi come gesto gravemente egoistico Tessermi sposata e aver messo al mondo dei figli.

Piombai nella disperazione. Per fortuna il pediatra telefonava per spronarci a decidere in fretta dove operarti. Ci prospettava una rosa di possibilità e noi dovevamo soltanto scegliere, ma io volevo solo morire. Non mi importava più di niente. Cercavo di pregare ma non mi riusciva. Dio era diventato un qualcosa di enorme sopra di me, mi sembrava volesse schiacciarmi per punire quella stupida ragazzina che non aveva voluto accettare e seguire il consiglio di quella certa M.me Wolfe che, in un convegno giovanile del Movimento Apostolico Ciechi, aveva consigliato a tutte noi ragazze cieche di sublimare la nostra sessualità.

Cercavo di pregare ma non mi riusciva. Dio era diventato un qualcosa di enorme, mi sembrava che volesse schiacciarmi

Allora mi era venuto un gran mal di stomaco e avevo deciso immediatamente di non dare ascolto. E adesso pagavo e, quel che era peggio, costringevo te, Tomaso, a pagare il mio conto. Quanto ero sola! Rifiutavo anche tuo padre, al quale rimproveravo di avermi voluta sposare a tutti i costi, scaricando così, almeno un po’ i miei sentimenti negativi!
La colpa era anche dei miei genitori che, se non mi avessero messa al mondo, non mi avrebbero posta nelle condizioni di mettere al mondo te. Ti chiedevo perdono mentre, come un automa, soddisfacevo i tuoi bisogni corporali. Mi spiacque perfino che il cattivo funzionamento della caldaia del riscaldamento ci avesse solo intontiti tutti, una notte…
Quando un altro pediatra mi disse che i tuoi occhi non avevano nulla di strano e che tutti i bambini della tua età non fissavano, rimproverandomi perché inventavo cose assurde con le mie paure, sapevo di aver a che fare con un gran superficiale ed ignorante, ma per un attimo riuscii quasi a credergli, illudendomi che l’oculista avesse visto male.
Poi prevalse la,ragione e scegliemmo l’oculista che ti avrebbe operato. Ricominciai a pregare con l’aiuto di due care donne non vedenti del M.A.C. (Movimento Apostolico Ciechi), che in quella città si erano prese cura di me e di te, visto che papà doveva rimanere a casa tanto per il lavoro che per stare vicino a Sara, sostituendo almeno un pochino la mamma. Con loro potevo pregare, perché già vivevano sulla propria pelle la minorazione visiva come me e dunque potevano capire. In quel reparto cominciai a comprendere un po’ del senso delle tue e delle mie sofferenze. Tutti quelli che nel reparto entravano in contatto con noi si ingentilivano, dai medici alle infermiere. E fu lì che incontrammo anche Gabriella, una ragazza ventenne che stava perdendo la vista. Era puericultrice, e con te riimparò che molte erano le cose che poteva ancora fare: esistevano i biberon graduati a rilievo, molto di ciò che si fa con la vista può essere fatto col tatto… Partì da lì la ripresa di Gabriella che oggi è una brava insegnante di altri ciechi.
Padre Peraz, del M.A.C., veniva a trovarmi portando con sé un mio ex insegnante. Dei nostri colloqui non ricordo molto, ricordo però che non mi facevano grandi discorsi di fede: la loro era quasi una presenza silenziosa, di puro ascolto della mia rabbia, della mia disperazione; solo una volta il mio ex maestro mi diede una strigliata perché avevo usato la parola « disgrazia», spiegandomi che quel termine significa «non in grazia», «al di fuori della Grazia», e che l’uomo deve affidarsi se vuole comprendere i segni della Grazia, segni che talvolta ci sfuggono.

Insieme portiamo un fardello molto pesante: i nostri figli dovranno affrontare il calvario che abbiamo salito io e te

Al ritorno dall’ospedale, più che i parenti ci furono vicini i genitori di altri bambini visulesi. L’anno prima avevamo gestito, per il M.A.C. della nostra città, un corso di informazione per genitori di bambini e ragazzi non vedenti. Alla fine dei numerosi incontri mio marito e io ci eravamo fatti da parte considerando che ora spettava a quei genitori continuare ad incontrarsi tra loro se, come sostenevano, lo desideravano. Più di una volta ci sollecitarono a riunirli ancora, ma noi non lo ritenevamo giusto educativamente.
Fu una di quelle mamme che mi scosse affermando che ormai eravamo «dei loro» e dunque, visto che come insegnanti specializzati avevamo maggiori capacità organizzative e competenze specifiche, dovevamo metterci ancora una volta al servizio. E da allora non ci fu più tempo per piangerci addosso poiché fummo tra i fondatori dell’A.N.Fa.Mi.V. (Asociazione Nazionale delle Famiglie dei Minori con problemi di Vista).
Una mamma in particolare mi venne in aiuto, la mamma di una ragazzina di seconda media colpita da tetraparesi spastica e da grave deficit visivo. Ogni giorno la portava da me perché io le insegnassi a leggere in Braille con quell’unico dito indice della mano destra che riusciva alla meno peggio a comandare. Mentre io lavoravo con Barbara, lei mi portava fuori Tomaso e Sara. Li accompagnava al parco giochi immergendoli tra bambini chiassosi e ridenti, stati d’animo e manifestazioni che a casa nostra erano scarse. Paolo ed io, intanto, osservavamo la più stretta astinenza sessuale, in attesa di uscire dal periodo delPallattamento per poi adottare un metodo contraccettivo sicuro, e ciò durava ormai dal terzo mese di gravidanza, quando mi dovetti sottoporre al cerchiaggio cervicale per evitare un parto prematuro. Fui io, cogliendo in lui non so quale tensione, a rompere quell’astinenza, convinta di trovarmi in attesa di una mestruazione che sarebbe inziata di lì a poche ore. Invece era un’ovulazione, così che mi trovai immediatamente incinta e il ricovero di Tomaso per il secondo intervento precedeva immediatamente il mio per il cerchiaggio.
Non fu, quello, un periodo facile, ma ormai i ero riconciliata con Dio e a Lui mi affidai. Non fu facile anche perché molti, fra i quali, per primi, alcuni dei parenti più prossimi, insistevano perché abortissi, e anche il mio ginecologo lo voleva perché era passato troppo poco tempo dalla precedente gravidanza, e inoltre, visto il figlio che avevo avuto…

Più che i parenti, ci furono vicini i genitori di altri bambini e ragazzi non vedenti

Papà ed io, caro Mariano, ti difendemmo subito da tutti, con l’aiuto anche di don Domenico, il nostro parroco, che ci mise subito accanto una famiglia che aveva già cinque figli, e alla fine tu gli portasti fortuna visto che, poco dopo di te, arrivò a casa loro il tuo amico Emanuele. Don Domenico, che oggi è il tuo padrino di Battesimo, ebbe il merito di aiutarci a chiedere il meno possibile ai parenti che allora non erano pronti, ma che, appena nato, ti amarono subito. Anche chi non sapeva che tu ceri già fin dal momento del concepimento credendo che saresti cominciato a esistere molto tempo dopo, mi diceva che, se ti avessi messo al mondo sapendo ormai che la mia malattia era ereditaria, tu me l’avresti rimproverato.
Per tutto l’amore che sentivo dentro, sapevo che questo non poteva accadere anche se poteva esserci il rischio che, una volta o l’altra, una frase su quel tema ti sarebbe venuta fuori, come accade — credo — a tutti i figli da che mondo è mondo.
Nonostante il cerchiaggio però, caro Mariano, tu non volevi aspettare il momento giusto per nascere. Mi sentivo in colpa perché mi pareva che il mio corpo ti rifiutasse; una volta, ma una volta sola, sperai che accadesse l’irreparabile per poter tornare presto con Tomaso e Sara e per evitarti una vita da minorato visivo. Durò solo poche ore, seguite dalla decisione di lasciare quel grande ospedale specializzato dove mi pareva non facessero abbastanza per la tua nascita, e mi feci portare dal papà direttamente nel nostro ospedale, affidandomi alle cure di un vecchio compagno di studi. Fu una dura lotta per portarti alle trentacinque settimane, ma con quel medico, in quel reparto, col papà più vicino, mi sentii sicura.
Una volta mi sembrò di stare per andarmene, e fu allora che decisi che non ti saresti chiamato David come avevamo pensato fin dall’inizio: mi arrabbiai con il Signore che non capiva che mi sentivo indispensabile per Sara e Tomaso, e quindi non potevo venire nell’al di là solo con te. Ti donai allora a sua Madre, la Madonna, sfidandolo ad avere il coraggio di fare un torto a lei.
Non posso giudicare puerile il mio comportamento di allora, perché da quel momento la mia vita è cambiata. Nel donarti a lei, le ho chiesto di darmi la forza di accettare ogni imperscrutabile disegno di Dio.

Gli interventi chirurgici hanno fatto dei nostri figli ragazzi che vedono, sia pure coi loro occhialoni

Così la tua cataratta non mi ha gettato nella disperazione quando, a due anni e mezzo, è comparsa. Non che mi abbia fatto piacere, ma a Medjugorije mi sono lasciata trascinare non per chiedere la tua guarigione, come la nonna faceva, ma per chiedere la forza di accettare. Ho imparato a meditare la frase «Il Signore sa ciò di cui abbiamo bisogno» e a testa alta sono andata avanti, facendomi scudo di tutto ciò che mi veniva detto.
Non fu facile: quando uscisti dalla sala operatoria svenni e ci fu più da fare intorno a me che intorno a te, ma la fede mi aiutava. Non eravamo nell’ospedale in cui era stato operato tuo fratello, ma anche in quella città ricevevo le visite del consulente del M.A.C. e di altri amici. La nostra stanza era un piacevole luogo d’incontro: quotidianamente si diceva il rosario (le donne dentro, gli uomini nel corridoio quasi per non essere visti) e tu venivi portato dalle infermiere accanto ai letti degli anziani che non volevano alzarsi, con loro giocavi a far correre le macchinine nel corridoio; io incontravo mamme disperate e tu giocavi con i loro bambini. Assieme a quelle persone si piangeva, si giocava, si pregava.

Caro Paolo, abbiamo condiviso assieme quei momenti come ora condividiamo tutti i problemi della crescita dei nostri tre figli. Per me era duro stare sola durante i ricoveri dei bambini, ma ero serena perché sapevo che tu provvedevi egregiamente ai figli che rimanevano a casa. Da sola soltanto non potevo sopportare l’attesa fuori dalla sala operatoria, e allora tu eri con me e con me pregavi e piangevi. Ti sentivo forte, tanto che potevo anche permettermi di svenire! Mi sei stato accanto il più possibile, anche quando assistevi me in gravidanza, e la terza è stata forse più difficile per te che per me, quando oscillavo tra lesserei e il non esserci, e della tua presenza mi accorgevo appena. Insieme abbiamo trovato tanta bontà nelle persone che ci hanno aiutato, e insieme cerchiamo ora di dare almeno una parte di quanto abbiamo ricevuto.
Tra gli aiuti più importanti che abbiamo avuto, senza dubbio sono stati quelli offertici da chi talvolta ci ha tenuto i bambini per permetterci qualche ora per noi, magari per partecipare a una riunione. Qualche volta mi hai rimproverata di essere troppo mamma e troppo poco moglie, ma cosa ci vuoi, fare, il cordone ombelicale non si recide mai del tutto. Anche oggi che Sara ha diciassette anni, Tomaso dodici e Mariano dieci e mezzo, io li sento quasi ancora in me.
Gli interventi chirurgici hanno fatto, dei nostri figli, ragazzi che vedono, sia pure coi loro occhialoni, sia pure Mariano più che Tomaso… ma è ugualmente dura oggi, quando ci tocca di assistere alle loro giuste crisi di rifiuto della propria minorazione. Pur avendo accettato, io soffro ancora, e so che questa sofferenza mi accompagnerà per tutta la vita. Quando Tomaso soffre, io soffro con lui, insieme cerchiamo strategie di aggiramento, ma allora sei tu, Paolo, che sdrammatizzi, che studi con noi e, nei limiti del tuo possibile, riporti la serenità.
Insieme, però, portiamo un fardello molto pesante, quello di aver trasmesso ai nostri figli la possibilità di concepire a loro volta dei figli con la cataratta, dunque che dovranno essere operati, riabilitati visivamente, che dovranno affrontare il calvario che abbiamo salito io e te.
Di fronte a questo non possiamo far altro che crescerli nella consapevolezza serena che questo potrà accadere e affidarli al Signore perché stia loro accanto nelle scelte di vita che faranno. Dobbiamo fare di loro persone libere, ma responsabili.

Edda Calligaris Bulligan, 1994

Questo articolo è tratto da
Ombre e Luci n.43, 1993

Copertina - Ombre e Luci n.47 - 1994

Sommario

Editoriale

Ferie di agosto di M. Bertolini

Articoli

Un fardello pesante di E.C.Bulligan
Non vuole più andare a messa di H. Bissonier
Esperienza di catechesi: confessione di T. Pelagallo
Come costruire il futuro delle persone disabili di D. Byrne e N. Seede
Per tutte le Sabine del mondo

Inchiesta

Inchiesta tra i genitori di figli con handicap

Rubriche

Dialogo aperto
Vita Fede e Luce

Un fardello pesante ultima modifica: 1994-09-02T12:47:13+00:00 da Redazione

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