Gli articoli di questo numero presentano le esperienze di un giovane disabile, un'amica, un fratello, due famiglie (qui e qui), una mamma sola col suo bambino. Essi rappresentano la "famiglia" di persone di cui "ombre e Luci" parla e a cui si rivolge.

Rachelle è del Madagascar. II marito è canadese. La vita li ha portati a molti cambiamenti e molti spostamenti da un paese all’altro. Il suo bambino Nicolas è gravemente handicappato. Nicolas sembra non imparare niente da solo. Tutto sembra chiedergli un lungo esercizio: stare in piedi , mettere un piede davanti all’altro , portare il cibo alla bocca, persino sorridere. Fortunatamente ha una mamma sorridente e molta coraggiosa.
Sono arrivata a Roma due anni fa con i miei due bambini. Michael aveva due anni e Nicolas un anno. Nicolas è epilettico fin dalla nascita ed ha un serio ritardo psicomotorio.
Era per questo che avevamo dovuto abbandonare l’Africa dove avevamo abitato per due anni.
Malgrado la tristezza che accompagna ogni partenza quando si lascia dietro di sè una casa, gli amici e un lavoro, eravamo impazienti di vivere un’esperienza « europea » e di dare a Nicolas tutte le possibilità di svilupparsi armoniosamente. Inoltre Roma non era la culla della civiltà occidentale e il centro, o quasi, del mondo?
Ero dunque arrivata a Roma con la mente piena di attesa e di speranza sul nostro nuovo «paese». Ma dopo il primo slancio di entusiasmo rapidamente cominciai a smontarmi. La prima cosa che mi mancò fu l’aiuto in casa. In Africa se ne trovava facilmente e a buon prezzo. Qui era il contrario.
Il primo mese fu terribile per il mio morale. Non conoscevo nessuno e non avevo la possibilità di fare conoscenze perché passavo la giornata in casa a cambiare i pannolini, a lavare i biberon (ne usavo dodici al giorno), a preparare passati di verdura, a fare le pulizie e il bucato… Non sapevo una parola di italiano, non conoscevo nessuno che potesse aiutarmi nella cura dei bambini o a fare le pulizie e non avevo nessuno con cui parlare (tranne forse la televisione…). Usavo invece tutto il giorno un linguaggio infantile dove si ripetevano parole come «cacca», «pipì» «tettarella», «totò»… Mi vedevo sprofondare lentamente ma inesorabilmente nella deficienza mentale: volevo un bene immenso ai miei bambini, ma occuparmene ventiquattro ore su ventiquattro mi riusciva estremamente difficile… A causa di questo stress dormivo male e tutte le notti avevo una crisi di asma. Ciò succedeva stranamente alla stessa ora in cui Nicolas si svegliava anche lui, verso le due o le tre del mattino. Mi svegliavo poi stanca e andavo a letto ancora più stanca sapendo che mi sarei risvegliata di primo mattino, alle due… Quando mio marito tornava dal lavoro mi gettavo verso di lui come un prigioniero si butta verso una porta aperta: finalmente cera qualcuno con cui parlare della giornata, qualcuno cui lasciare un momento i bambini. Egli tornava la sera, naturalmente, e dovevo approfittare dell’automobile per fare la spesa prima che chiudessero negozi. Abitiamo fuori Roma e lontano da ogni negozio: qui la vita, senza automobile e con due bambini piccoli da portare con sè, è semplicemente impossibile. Dopo un mese di solitudine fisica e morale trovai l’aiuto di Paola per la casa e di Francesca per i bambini. Respirai: finalmente potevo uscire per qualche ora. Il mio primo acquisto fu un libro per imparare l’italiano, il secondo una rubrica per indirizzi. Erano chiare le mie priorità: imparare Vitaliano e farmi deqli amici…
La mia sistemazione a Roma fa pensare a un parto: fu dolorosa, ma poi dimenticai tutto per ricordare solo le cose buone. In effetti ho dato alla luce una nuova me stessa. Ho perduto mia madre già da molti anni, ma mia suocera mi diceva spesso: «Ciò che non riesce ad ucciderti ti rende più forte ». Questo per me è risultato vero: ero diventata moralmente più forte e man mano che il mio libretto degli indirizzi si riempiva, mi sentivo meglio « nella mia pelle». Nella mia pelle? Ah! Forse se questa fosse stata più chiara mi sarei sentita ancora meglio, e più velocemente! Non lo so, penso che sia così, ma non ne sono proprio sicura.

Il primo gruppo che mi adottò fu un gruppo di francesi sposate con italiani. Una di loro aveva un bambino handicappato e mi propose di accompagnarmi a un Centro di riabilitazione che conosceva bene. Con un’altra andai a parlare in un asilo per chiedere l’inserimento di Michael che ancora non riusciva a tenersi pulito. Conosceva la direttrice e le spiegò la situazione. Il Centro accolse Nicolas e l’asilo accolse Michael. (Tutto incominciò ad andare meglio, ma mi domando se sarebbe stato così facile se fossi andata a parlare da sola, sola con la mia pelle… Di nuovo non so).
Un giorno Nicolas si ammalò e molto gravemente. La febbre restò sui 40 per tre giorni. Il medico mi disse che bisognava portarlo in ospedale e che, data l’epilessia, non voleva rischi. Mi spaventai e fui presa dal panico. Proprio in quel momento mio marito si trovava a Malawi per tre settimane e non avevo qui alcun altro parente: chi si sarebbe occupato di Michael? Ero vicina a una crisi di lacrime. Presi la mia rubrica e trovai il nome di un medico italiano incontrato in Africa. Egli accettò di aspettarmi in ospedale, e un amica si offrì di portarmici in automobile con il bambino. Poi mi avrebbe mostrato un itinerario molto semplice per arrivarci da sola perché non avevo mai guidato all’interno della città. Il personale dell’ospedale Bambin Gesù fu gentilissimo e dimostrò molta collaborazione. E anche vero che all’inizio nessuno capivaperché io dovessi tornare a casa tutti i giorni mentre le altre mamme restavano vicino al loro bambino. Ma le altre avevano la loro mamma che portava tutti i giorni da mangiare e si occupava del fratellino o della sorellina a casa, ecc. Credo che la cosa più pesante sia stata quella di guidare ogni giorno da casa all’ospedale e viceversa durante le ore di punta. Ero atterrita da tutte quelle automobili che suonavano il clacson, mi superavano, giravano a destra o a sinistra senza avvisare, o mettevano la freccia, ma non giravano.

Nicolas uscì dall’ospedale prima di Pasqua e questa fu per me una vera resurrezione. Di nuovo nascevo alla vita e così mio figlio. Nello stesso tempo questa esperienza provocò in me uno scatto, una specie di rivolta interiore: non bisognava che la situazione che avevo vissuto capitasse ad altre mamme con bambini piccoli, straniere, senza famiglia, senza appoggio. Pensai perciò di creare un’associazione di aiuto reciproco, dove ci fossero centri di ascolto in vari punti di Roma: ci si sarebbe occupate da una parte dei bambini, dall’altra di argomenti di interesse sociale; sarebbero state cioè mattinate in cui si prendesse il caffè e le mamme potessero incontrarsi, parlare dei loro problemi e scambiarsi informazioni. Ne parlai ad altre mamme ed esse trovarono questa idea straordinaria. Ora siamo in cinque. Abbiamo messo un pò di denaro in comune per comprare scaffali e attaccapanni. Abbiamo trovato qualcuno per guardarci i bambini una volta alla settimana. Ho organizzato poi il nostro primo incontro sociale: un pediatra olandese è venuto a parlare delle malattie infettive nei bambini e nei neonati. Alla fine del caffè alcune mamme sono venute a ringraziarmi e mi sono sentita bene: incominciava una nuova avventura…
Ora questa avventura ha due anni, i miei bambini sono cresciuti e vanno tutti e due all’asilo durante la giornata. Si può dire che per il momento i miei problemi sono risolti. Potrei lasciare ad altri l’impegno di continuare la mia attività, ma sento che il progetto è ancora fragile. Se ora me ne andassi tutto sarebbe da ricominciare. Devo perciò continuare ad accogliere mamme e bambini… Inoltre domani o l’anno prossimo bisognerà forse organizzare qualche altra cosa per Nicolas. Ora ci sono gli altri, molti altri, con i quali io so di potere fare tante cose.

Rachelle Czerwinski, 1993

Eravamo soli e… siamo rinati ultima modifica: 1993-03-18T14:25:03+00:00 da Redazione

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