Questo libro, scritto più di cinquanta anni fa e ormai diventato un classico della psicoanalisi delle psicosi, si legge d’un fiato ed è così affascinante da non potersene staccare. E la storia toccante di un lavoro svolto dall’autrice, infermiera e psicoanalista svizzera, nei primi anni della sua carriera fra le donne psicotiche del «reparto agitate» della Clinica Psichiatrica dell’Università di Vienna.
Il suo fascino deriva dall’associazione, in questa giovane terapeuta, di una tecnica professionale corretta e di una personalità profondamente umana e colma di straordinaria sensibilità.
La sua intuizione fu che un lavoro di terapia psicoanalitica era possibile anche con queste malate così gravi e così apparentemente refrattarie ad ogni rapporto. Questo però soltanto a partire dal momento in cui avevano conosciuto un amore che al loro stadio di regressione infantile era la cosa di cui avevano maggior bisogno: l’amore materno. Era l’amore che non avevano mai ricevuto, quella tenerezza materna per cui, come dice il Dott. Federn allora supervisore della Schwing, «il destino dell’altro ci appare più importante del nostro e i suoi bisogni diventano oggetto di conoscenza intuitiva e immediata».

Ciò che è evidente nell’esperienza descritta è che le malate si sentivano amate, capite e difese. Non erano necessarie molte parole e spesso bastava un piccolo gesto, un momento di ascolto, o soltanto la presenza silenziosa della terapeuta. Ella andava di letto in letto, anzi, di gabbia in gabbia, come era in uso a quell’epoca, abbassava le sbarre, si sedeva vicino alle malate, rimetteva a posto un lenzuolo, accarezzava una fronte bagnata di sudore. Il suo atteggiamento era tale che sembrava come se una corrente passasse tra lei e le malate; allora « le agitate si calmavano, le catatoniche riprendevano a muoversi, le maniacali scoppiavano in singhiozzi».
Così a poco a poco iniziava un rapporto e chi era spezzato dentro di sé cominciava a percepire la propria identità.
Quello che colpisce in questo libro è la sovrabbondanza dell’amore che ci può essere in una persona e la possibilità che questo, mantenuto in equilibrio da un costante lavoro personale su se stessi, sia capace di portare un bene effettivo a chi ne è il destinatario.
Le intuizioni dell’autrice sono oggi patrimonio comune degli operatori e teoricamente sono acquisite. Credo però di non essere la sola e pensare che la sua storia debba essere di nuovo meditata, presa a modello, e rivissuta nel concreto da noi tutti per assicurare giustizia in quel mondo della «sanità malata» di cui tanto si parla.

Natalia Livi, 1992

Natalia Livi, è stata una delle storiche collaboratrici di Ombre e Luci. Ha contribuito alla rivista dal 1991 al 2004.

Questo articolo è tratto da
Ombre e Luci n.39, 1992

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La pazzia e l'amore, Gertrud Schwing
L’ascolto che guarisce, AA.VV.
Giobbe, perché? - Dialogo di una madre , Janine Chanteur
Quando la crisi insegna a vivere, Erika Schuchardt

La pazzia e l’amore – Un cammino verso l’anima del malato di mente ultima modifica: 1992-06-06T11:30:22+00:00 da Natalia Livi

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