Sono un genitore; vorrei parlare di me e del mio rapporto con Paola. Per gli altri sarà senza dubbio completamente diverso, date le caratteristiche individuali di ciascuno che ben ci distinguono. La mia voce non fa legge, né regola.
Mi sposai a 21 anni, nel 1950. Nel 51 nacque la mia prima figlia, Silvia e nel 54 la seconda, Rita. Eravamo una classica famiglia serena, «definita» nel quartiere e in Parrocchia una delle migliori famiglie. L’abitudine di mettere etichette è sempre esistita.
Nel 1959 nacque Paola. Il parto, all’ottavo mese di gravidanza, si presentò podalico e fu vissuto da parte mia in modo tutto diverso da quelli precedenti. All’uscita dalla clinica mi furono dette queste semplici parole: «Sa, dover tirare fuori la testa, averla dovuta tirare, ha certamente fatto soffrire la bimba. Non sarà certo come le altre due».

Nella mia incoscienza, non diedi troppa importanza alla cosa e tornai a casa. Si notava, però, che ero triste; tutti me lo dicevano; perfino Silvia, di soli otto anni, diceva: «Però, mamma, con questa sorellina non sei contenta come quando è nata la Rita». E io cercavo di reagire. Paola non succhiava, le notti insonni furono tante, ma speravo che tutto si sistemasse per il meglio, seguendo sempre i consigli e le indicazioni del solito pediatra. Trascorsero i suoi primi anni di vita e io a poco a poco mi accorsi che il modo di esprimersi, di comunicare, di partecipare ai giochi, di cominciare a disegnare o scrivere, non era uguale a tutti i bambini della sua età. Fu qui che cominciò la trafila degli specialisti che fecero la loro diagnosi di bambina «cerebropatica-oliogofrenica».

La mia reazione fu delle peggiori, anche se facevo parte della famosa «buona famiglia». Mi sentivo fortemente colpevole di tutto ciò; mi chiesi in continuazione «perché proprio a me, perché proprio lei?». E disperatamente mi misi alla ricerca di tutti i mezzi e i modi per farla diventare come le altre. La vita diventò veramente dura; c’era in me un rifiuto della realtà e questo rifiuto è quello che probabilmente ha, forse, danneggiato Paola. Non posso certo dilungarmi a dire tutto ciò che di sbagliato (lo dico oggi, sbagliato, ma allora lo ritenevo giusto) io feci. Voglio solo arrivare alla conclusione: i commenti degli amici e dei parenti non erano dei più favorevoli, ma nonostante ciò sentii in me il forte desiderio di avere un altro figlio, e fu così che nel 67 nacque Anna.
Non sarà come le altre due. Vogliamo offrirvi la nostra amicizia ….ed entrammo in Fede e Luce. Dopo questo evento in me cominciò a cambiare tutto. Mi resi conto chè le strade percorse erano veramente false, capii che dovevo entrare dentro di me, conoscere me stessa, rivedere tutto di me come donna, come moglie, come madre. Uscii completamente dalle mie mura, cercai tante vie, le più diverse e a tutti i livelli.

Arrivai allora alla più grande conquista della mia vita. Ci arrivai troppo tardi, ma fu così: presi fermamente coscienza che i figli non sono nostri, sono persone a se stanti, completamente separate da noi e che noi siamo semplicemente chiamati ad imparare ad amare ognuno per quello che è senza progetti alcuni su di loro.
Era perciò del tutto privo di senso sentire l’orgoglio e il piacere per quelle figlie cosidette normali, belle e intelligenti, tanto quanto era privo di senso trovarmi a disagio di fronte al mondo per la figlia che tutte queste doti non aveva. Fu questa conquista che capovolse completamente la mia vita. Capii che ogni figlia, Paola compresa, mi chiedeva soltanto di essere guardata, ascoltata e guidata a scoprire quali erano le sue effettive capacità, quali i suoi desideri, i suoi bisogni ed in base a questi riuscire ad esprimersi, a vivere, a godere del buono e del bello. Peccato, Paola aveva ormai dodici anni, ma non mi scoraggiai. Incontrai tante e tante difficoltà. Ma ogni via nuova volevo provarla. Capii che non ero io quella che soffriva, ma lei la vera incarnazione della sofferenza innocente.

I miei rapporti cambiarono con lei e con tutte le mie figlie. Ci fu nei riguardi di ognuna un vero rispetto ed un vero amore. Naturalmente la vita di Paola continuò ad essere difficile. Al deficit intellettivo si unirono gravi problemi di relazione col prossimo, che fortemente desiderava, ma non riusciva a gestire. Da qui la sua tristezza e la sua aggressività; aggressività limitata sempre ad espressioni e violenza verbali, ma ugualmente per tutti molto disturbante. E fu qui, in questo contesto, che incontrai finalmente Fede e Luce.
Era il gennaio 1988. Paola aveva 28 anni e mezzo. Susanna e Paolo, due giovani amici, vennero a casa mia e portarono un messaggio veramente chiaro. Dopo aver brevemente raccontato che cosa facevano nella comunità di S. Anna, precisarono: «Non siamo degli esperti, non pensiamo di risolvere tutti i problemi che voi avete, vogliamo soltanto offrirvi la nostra amicizia, anche se non sempre ci riusciremo».

Offrire un’amicizia è forse quello che di più grande e di più bello potete fare

A queste parole io risposi: «E vi sembra poco? Offrire un’amicizia, è forse quello che di più grande e di più bello potete fare; senz’altro è proprio quello che ai nostri ragazzi è sempre mancato».
Poi, quasi incredula, ripetei per due o tre volte se realmente potevano prender parte anche i genitori. Ed essi ribadirono che era proprio quello che volevano. Io, abituata ormai a prendere le persone estremamente sul serio, credetti fermamente a questo messaggio ed entrammo in «Fede e Luce».

Sono passati quasi tre anni e posso gridare a chiunque che quel messaggio era vero, che a Fede e Luce l’amico, con tutta la fatica che questa parola richiede, cammina e lotta per essere veramente amico. L’ammirazione, la stima, l’affetto, la ricerca di ciò che insieme si voleva vivere mi ha entusiasmata; le feste, i giochi, le pizze, i pranzi e le «casette»; le vacanze estive, i momenti di vera preghiera, le telefonate, le chiacchierate, tutto insomma, mi ha talmente coinvolta che la serenità e la gioia che ne ricavo è diventata parte di me, me la porto dentro nella mia vita di tutti i giorni e lo stile di Fede e Luce è diventato il mio stile di vita. Non sarà, io credo, un punto d’arrivo; nulla, mi auguro, in me resterà statico, ma con tutti i componenti di Fede e Luce sento che potrò veramente camminare.
Non parliamo poi, di che cosa è stato per Paola. Finalmente ha provato sulla sua pelle cos’è un’amicizia; ha messo di fronte a sè tutte le barriere che poteva; continua e continuerà a metterne, ma voglio fare un solo esempio: l’I giugno 1988, giorno del suo compleanno, a chi le telefonava per gli auguri, sbatteva giù la cornetta del telefono e gridava a più non posso; il 1° giugno del 1990, ha ripetutamente annunciato in anticipo a tutti che lei compiva gli anni e per quella sera volle tutti gli amici, i ragazzi e i genitori di Fede e Luce di S. Anna a casa nostra; fu lei a gestire tutta la serata. La nostra casa è piccola, eppure ci stavamo tutti e ci stavamo bene. Penso che per gli amici sia stata una grande conquista: il messaggio da loro portato era vero. E’ il messaggio più grande e più bello che si possa dare. E’ l’unico che può dare senso e valore ad ogni vita; è un messaggio che fa dire: «Io ci sono e gli altri mi vogliono».

A Fede e Luce l’amico, con tutta la fatica che questa parola richiede, cammina e lotta per essere veramente amico.

Vorrei anche gridare a tutti i genitori che il nostro dolore e, ancor più, il dolore di nostro figlio, rimarrà per sempre, ma che, forse, ci sono modi diversi per viverlo. Fede e Luce ci offre uno di questi modi. Ma l’unico mezzo che abbiamo per conoscerlo e viverlo, è quello di credere a ciò che Fede Luce ci dice, di credere fermamente a quella famosa parola «amico» oggi forse eccessivamente inflazionata. Detta da Fede e Luce è vera; ma possiamo scoprirla e goderla solamente se, con molta e molta fatica, riusciamo ad abbandonare quello che ci sta alle spalle, riusciamo ad uscire dalle nostre case dove, forse, non sempre quello che facciamo è utile e indispensabile; riusciamo ad andare alle feste, alle pizze, alle «casette», agli organizzativi, agli incontri di tutti i tipi di Fede e Luce. Riusciamo anche a fatica a godere delle cose più piccole, magari di una parola sola o di un solo gesto. Riusciamo, insomma, a metterci alla pari dei ragazzi, degli amici più giovani, di chiunque incontriamo. Se avremo pazienza e costanza, avverrà in noi una trasformazione meravigliosa.
Ai giovani voglio dire una cosa sola: quello che fate, con delusioni o meno, tra amarezze e sconforti, quello che fate è una «cosa grande», troppo grande per essere espressa a parole. Non rinunciate alla costruzione della vostra vita, alle vostre scelte personali, ma con serenità, tanta serenità diventate sempre di più: i nostri figli hanno bisogno di voi; noi genitori abbiamo bisogno di voi. La mia presenza, la mia partecipazione, la mia collaborazione, il mio affetto, nei limiti di quello che sarò capace di fare, non vi mancherà mai.

Laura Delay, 1991

Questo articolo è tratto da
Ombre e Luci n.33, 1991

Sommario
Con la vostra collaborazione - Inchiesta di Mariangela Bertolini
Famiglie diverse? di Giacomo e Maria Labrousse
Educare è desiderare di Marie H. Mathieu
La Stelletta di Nicole Schulthes
Quel che mancava ai nostri figli di Laura Delay

Rubriche

Dialogo aperto

Libri

L'omino di vetro di M.C. Barbiero
Vita! riflessioni sulla cultura dell'hadicap di C. Imprudente
Il mio piede sinistro di C. Brown

Quel che mancava ai nostri figli ultima modifica: 1991-03-16T11:16:34+00:00 da Redazione

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