In tutto il Trentino Pergine era tradizionalmente sinonimo di manicomio. I grandi edifici del vecchio manicomio sorgono al margine del paese in un ampio terreno recintato che sale per il fianco della montagna verso l’antico castello. A metà pendio, nel bosco di larici, abeti e betulle, è il maso ristrutturato che accoglie la comunità. (Maso è termine con cui si indica la fattoria in montagna). P. Beppino Taufer racconta la storia e la realtà della Comunità che ha fondato e dirige.

La Comunità nacque 5 anni fa tra mille difficoltà e diffidenze.
La proposta dei Camilliani risvegliava il timore che si volesse resuscitare il manicomio, che ci fossero «ingerenze» nell’assistenza psichiatrica pubblica… Per inciso, qui nel manicomio di Pergine vivono ancora 350 degenti anziani che non poterono essere dimessi all’epoca della riforma, ma devo dire che gli operatori si adoperano veramente a migliorare la qualità della loro vita. Per essere precisi, la proposta iniziale dei Camilliani incontrò il favore degli amministratori politici che videro la possibilità di far decollare una «struttura intermedia», e l’opposizione dei medici psichiatri che sospettavano il tentativo di ricostruire una struttura di custodia. Alla fine per fortuna gli equivoci furono chiariti — intanto le posizioni più «a vanguardiste» della legge 180 registravano una serie di sconfitte — e oggi c’è una buona collaborazione. Infatti sono in atto tentativi di realizzare altrove esperienze come questa del Maso S. Pietro.
La comunità ospita pazienti schizofrenici di età media sui 35 anni, seguiti dai rispettivi servizi psichiatrici perché vi sia continuità terapeutica: i loro medici vengono periodicamente a visitarli. I 36 ospiti attuali sono divisi in due «poli». In questo, il Maso, sono 20, soprattutto giovani, che si conta di poter curare e reinserire nei loro ambienti. Gli altri, di età media più elevata, in situazione di cronicizzazione sono ospitati nel padiglione 14.

In cinque anni un’ottantina di pazienti sono passati per la comunità: questo dà una misura della sua efficacia riabilitativa. Dei pazienti passati per la comunità, più di trenta sono bene o male a casa loro, fanno qualcosa, sono accolti in famiglia; in ogni caso non sono sulla strada né ricoverati.
Il sabato e la domenica siamo costretti a chiudere per non avere o spiti istituzionalizzati. Alcuni, pochi, ritornano in famiglia, altri nei servizi di diagnosi e cura presso gli ospedali, altri in strutture più o meno protette, altri infine vanno… dove possono. Questo è un problema urgente che ci ripromettiamo di risolvere.
Un problema grave nella vita della comunità è che, non essendo «cu stodialistica», non ha gli strumenti adatti per fronteggiare adeguata mente i momenti di crisi degli ospiti. Bisogna tener presente che girano liberamente eppure almeno metà sono soggetti ad alto rischio che troverebbero sistemazione solo in servizi di diagnosi e cura.
La preparazione degli operatori è stata un compito primario. Io ho u na laurea in psicologia dell’ateneo Laterano. Sono specializzato in psicologia di tipo diagnostico e dell’o rientamento. Quindi ho girato un anno per conoscere le esperienze che venivano tentate. In questi anni ho anche percorso un lungo cammino personale, passando dalle tradizionali posizioni di superiorità, di paura, di avversione, di sfiducia nei confronti del malato, a posizioni che oggi mi sembrano quasi opposte. Naturalmente queste implicano il pericolo di una specie di simbiosi col malato. Credo che la posizione intermedia — né eccessiva distanza, né eccessivo coinvolgimento — sia la migliore per l’intervento psichiatrico più appropriato. Sono per un intervento psichiatrico il più umano possibile, in un ambiente accogliente dove viene ridotto il peso delle tensioni degli altri ospiti. Sono per un intervento integrato, con più figure professionali diverse. Credo fermamente nella dignità del malato mentale.
Per gli operatori che lavorano qui, e che non hanno preparazione specifica in campo psichiatrico, mi sono impegnato a realizzare corsi di preparazione e varie esperienze pilota.
Il personale non medico è assunto da me, cioè dai Camilliani. Il personale medico è garantito dalla USL.
Oltre i medici che seguono i singoli pazienti, la nostra équipe si avvale di due medici psichiatri fissi; di uno psicologo e una psicoioga per i contatti diretti con gli ospiti all’entrata; di una serie di altri personaggi in consulenza (assistenti sociali, arte terapista ecc.).
Qui non abbiano problemi di soldi; non devo elemosinare o contrattare con le USL. Le spese sono pagate dall’ente pubblico. Abbiamo orto, serra, frutteto dai quali viene qualche soldo, ma il lavoro degli o spiti ha fine solo terapeutico, per questo non abbiamo fatto una cooperativa. Nessun familiare dà la pensione del malato: è una questione in cui non voglio immischiarmi. Qui usiamo un metodo che può essere definito bimodale: addestramento di abilità comportamentali per la personalità psichica dell’ospite, e attività di impostazione più dinamica che si propongono di attivare la comunicazione e la espressione (in questo secondo «modo» rientrano attività come la musicaterapia). Curiamo i rapporti con le famiglie degli ospiti, secondo il programma familiare dell’ARS (Associazione Ricerca Schizofrenia). Crediamo che il contatto tra l’équipe degli operatori della comunità e la famiglia sia uno dei momenti più importanti in vista del nostro fine: il reinserimento dell’ospite nel suo mondo.
Questa è un’esperienza definita pilota anche per i Camilliani, che non hanno una tradizione di assistenza psichiatrica corretta come questa. Non facciamo miracoli, ma siamo citati in pubblicazioni scientifiche.
Credo che sia nostro dovere di Camilliani essere 24 ore su 24 a disposizione di queste persone, alle quali gli altri dedicano magari pochi minuti il giorno. Siamo in più costretti a spendere molto, in termini di risorse vitali, sia per l’organico ridotto (21 operatori che lavorano 36 ore settimanali, hanno ferie ecc.) sia per le particolari caratteristiche degli ospiti. La convivenza con loro toglie non poco in termini di tranquillità, a me e agli altri operatori, tra i quali perciò si verifica un certo ricambio.
All’inizio, mi piaceva andare a raccontare come è il malato mentale, quali sono i problemi e che bisognerebbe fare. Dopo, la cosa mi apparve disdicevole: vale più il tempo speso a lavorare accanto ai malati, modificando giorno per giorno la loro realtà, che a parlare dei loro problemi.

Sergio Sciascia, 1990

Come funziona

La Comunità Maso San Pietro accoglie malati mentali (psicotici) a dulti, maschi e femmine, che si ritiene possibile curare, della provincia di Trento. La comunità è aperta dal lunedì al sabato mattina, quando gli ospiti tornano a casa o ad altro luogo.
Gli ospiti sono tutti seguiti dai rispettivi specialisti delle USL di provenienza, con i quali vengono concordate cure e attività riabilitative.
La comunità ha il fine del reinserimento dei pazienti nei rispettivi ambienti. È gestita dai padri Camil liani (attualmente un sacerdote e un diacono) con i quali la Unità Sanitaria Locale ha stipulato una convenzione.
La USL garantisce l’attività medica specialistica e il personale infermieristico necessario.
Nella comunità operano: i due religiosi camilliani, infermieri professionali, ausiliari socio-sanitari, terapisti occupazionali, animatori del tempo libero e conduttori delle attività occupazionali, consulenti per la psicoterapia e Tamministrazione, volontari, obiettori di coscienza.

La vita nella comunità

Il Maso S. Pietro è accogliente, ben arredato (ci sono anche le suppellettili e gli attrezzi che di solito non sono in una casa per malati mentali), pulito (la pulizia è curata dagli ospiti stessi). Le stanze, piacevoli, sono singole o a due letti. Gli ospiti possono usare liberamente l’ascensore e possono uscire purché lo scrivano la mattina nel registro. Essendo casi difficili, possono avere difficoltà in paese, che però li ha nel complesso accettati: vanno in piscina comunale e al teatro insieme al pubblico. C’è una biblioteca.
Il venerdì mattina padre Taufer celebra la Messa. «È un momento molto bello — dice — al quale gli o spiti partecipano volentieri, facendo anche l’omelia su alcune idee principali che.suggeriscono loro».
Il programma della settimana è definito con precisione: discussioni comuni su programmi e verifiche del fine settimana, gruppo terapeutico, piscina, musicoterapia, arteterapia, ginnastica, pasti, pulizie, farmacoterapia, riposo…

Sergio Sciascia, nasce a Torino nel 1937 ma si trasferisce a Roma con la famiglia pochi anni dopo. Fin da piccolo manifesta una spiccata passione per lo scrivere e per il capire le cose che lo circondano, e di questi due aspetti farà il mestiere di una vita. Una collega, amica della primissima Fede e Luce romana, mette in contatto Sergio con Mariangela Bertolini e con l’idea di trasformare il ciclostilato “Insieme”che legava le poche comunità italiane di Fede e Luce in qualcosa di più. Era l’autunno del 1981. Nasceva Ombre e Luci e Sergio accettava di esserne il direttore responsabile.

Sergio Sciascia

Giornalista

Una soluzione giusta e umana – Maso S. Pietro ultima modifica: 1990-12-27T07:54:10+00:00 da Sergio Sciascia

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