Guardavo due colombi sul mio balcone. Si beccavano delicatamente, si rincorrevano, si avvicinavano strofinandosi le ali, tornavano a beccarsi in un gioco delizioso… Che linguaggio stupendo e così immediato! Ho pensato: «Se avessero dovuto dirsi tutte quelle cose a parole non avrebbero avuto una comunicazione tanto profonda e gioiosa». Ho pensato a noi uomini. Ci siamo allontanati dal linguaggio primordiale, fatto di gesti, atteggiamenti, sguardi… la parola ci ha consentito uno scambio sicuramente più ricco, ma non certamente così inequivocabile come era il linguaggio primitivo. Con le parole si può giocare, si può, volutamente o no, equivocare, fraintendere; e poi dov’è il calore dello scambio gestuale o anche la veemenza? Loro, i nostri ragazzi, a volte ritornano al linguaggio primordiale sia che ne siano necessitati per incapacità ad esprimersi con la parola, ma molto spesso per loro scelta, non sempre dovuta all’incapacità di usare la parola in modo efficace. Spesso è una scelta preferenziale in accordo con tutto ciò che in loro è genuino e limpido: per l’intuizione che il linguaggio gestuale resta il più schietto ed immediato.

E allora ci mettono in crisi; perché occorre capire e tradurre, e non è sempre facile!

Chi di noi non ha assistito ad una scena di violenza di uno dei nostri ragazzi? Vien da pensare : «Gli ha dato di volta il cervello, non riesce a controllarsi, non sa quel che fa!» E si può aver paura e guardarlo come un caso patologico, complicando la situazione. Invece occorre essere calmi (a parte la sofferenza profonda che si prova come genitore o altro congiunto) e cercare di capire e interpretare. L’angoscia che gli proviene dal senso profondo di nullità, la rabbia per chi non lo comprende o lo fraintende, l’intuizione di non poter essere capito a parole, porta il ragazzo a comunicare con gesti violenti. Certamente così costringe l’altro ad occuparsi di lui, ad aiutarlo a capire la sua angoscia, una volta superata la fase di sgomento o di rifiuto.

Se mio figlio, nel suo periodo più difficile non avesse usato il linguaggio sconvolgente della violenza, mi sarei messa io alla ricerca ostinata del perché di tanta sofferenza? Forse non avrei fatto un così lungo e faticoso cammino di revisione di me stessa, forse non avrei cercato così disperatamente i modi più idonei di comunicare con lui con la tenerezza di cui aveva bisogno e che non sapeva chiedere. Voglio dire, il linguaggio della violenza viene percepito dall’altro in maniera intuitiva e, se c’è tutto l’amore e la volontà di capire, pone l’altro alla ricerca di una risposta idonea. Non credo che se mio figlio, fragile ed introverso qual era, avesse usato le parole anziché la violenza per esprimere la propria ferita, avrebbe potuto ottenere da me l’ascolto ed il cambiamento del cuore che è avvenuto. Gianfranco, un ragazzetto di undici anni, sul più bello in cui siamo in gruppo e scambiamo con serenità, si sfila una scarpa e la lancia per aria. Con semplicità, qualcuno dice: «E’ il solito monello!» Ma si è cominciato a capire che così egli ci segnala: «Ci sono anch’io, non dimenticatevi di me!» Se tentasse di dirlo a parole, qualcuno lo ascolterebbe per un po’ forse, altri continuerebbero a non vederlo. Egli è alla ricerca della sua identità e l’attenzione a sé lo fa sentire persona; altrimenti entra in angoscia. E’ per lui cruciale essere presente con gli altri! E la scarpa per aria o la sedia rovesciata violentemente, ottiene ciò che egli chiede: l’attenzione a sé. E’ un gioco che può attenuarsi e riequilibrarsi solo se si placa l’ansia e l’angoscia che vi è dietro, non certo reprimendo il ragazzo. Ovviamente avvicinarlo con affetto e correggerlo con amore è positivo.

Ci si deve stranamente convincere che il loro linguaggio gestuale ha una forza insospettata, non uguagliabile dalla parola. Il pericolo è solo una cattiva interpretazione che allontana e rende impossibile il dialogo. Ma se il loro grido viene compreso, esso è capace di cambiare il cuore dell’altro e avviarlo a scoperte stupende.

E’ importante accorgersi che i nostri ragazzi non solo sanno usare la gestualità come linguaggio ma la sanno anche correttamente interpretare, sia nelle espressioni positive che negative.

Se mio figlio non avesse usato il linguaggio della violenza, mi sarei messa alla ricerca ostinata del perché della sua sofferenza?

Qualche mese fa, Luciano ha fatto grandi storie: è stato preso da un’improvvisa nostalgia di ritornare alla comunità d’origine da cui egli, con alcuni di noi, si era staccato per dar vita alla seconda comunità di Bari. Non c’era verso di convincerlo con parole d’affetto e promesse, o di capire il perché del suo comportamento: voleva tornare da Luisa e da Padre Mario! Dopo qualche tempo è sembrato rasserenato ed ha annunciato la sua decisione : «Resto nella nuova comunità» e un po’ schernendosi, ha aggiunto, in privato, a Luisa: «Ci resto perché Delia mi vuol bene, mi ha dato i bacetti sulla testa!». E’ stato questo gesto (quando sia accaduto, fra l’altro, non ricordo) a portare il messaggio rassicurante… e non già le tante parole. Niente da fare con loro quindi, con sermoni vari, o con parole affettuose se non sono profondamente sentite e colte nella loro veridicità attraverso il gesto che non mente!

E’ formidabile poi come comunicano col linguaggio gestuale fra di loro. Giorni fa Robertino era particolarmente irrequieto alla messa: disturbava, batteva le mani, tirava la giacca al vicino. E’ arrivato Mario (anche lui un ragazzo Down, ma più grande). Ha cominciato prima a guardarlo duramente e a far gesti di minaccia, cui Robertino annuiva scherzoso. Mario rincarava la dose e Roberto è diventato ad un certo punto serio e ha fatto la faccia compunta. Mario non ha mollato, l’ha preso per mano, l’ha lisciato su una spalla, ottenendo un sorriso cordiale, poi gli ha messo un braccio attorno al collo e sono andati insieme a fare la comunione. Non credo che uno di noi con le parole e le lusinghe avrebbe ottenuto tanto e così presto da Robertino! Il loro dialogo muto è stato stupendo, si sono comunicati la fiducia, il perdono, l’amicizia, con grande sicurezza.

A volte mi domando se è veramente una regressione per i nostri ragazzi esprimersi col comportamento o non invece una necessità e un modo per comunicare.

Stando con loro mi convinco sempre di più come nel dialogo verbale abituale la verità viene spesso velata, si fa fatica ad arrivare al nocciolo delle cose; si complica, si travisa, si equivoca anche involontariamente, non riuscendo mai totalmente ad abbattere quelle barriere isolanti di protezione che ognuno istintivamente si è andato costruendo. Ancora una volta, i nostri ragazzi ci spingono alla ricerca dell’autenticità che fa dell’uomo, veramente una persona.

– Delia Mitolo, 1987

Parla senza parole ultima modifica: 1987-06-29T11:53:32+00:00 da Delia Mitolo

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