Appunti di Anna Cece da una conferenza del prof. G. Moretti, per il convegno «Non ha più 16 anni», promosso dalla associazione La Nostra Famiglia, tenuto il 14-15 giugno 1986 a Molveno, pubblicato sul Notiziario Informazione Amici Don Luigi Monza, n. 3/86.

Sull’argomento dell’«handicap» si è molto parlato in questi ultimi anni, e qualcosa si è anche fatta, riguardo, per esempio, la prevenzione, la diagnosi precoce (anche prenatale), la riabilitazione, l’inserimento scolastico… insomma, tutto quel che riguarda il bambino.
Ma quando non ha più di 16 anni? La nostra attenzione e le nostre conoscenze si fermano sulla soglia del mondo del giovane-adulto, quasi che il nostro intervento nella sua infanzia potesse essergli di aiuto per tutta la vita.
Chi ha al riguardo un’esperienza personale sa, invece, che un handicap non è una condizione stabile, fissa nel tempo, suscettibile solo di miglioramenti, se ben seguita dall’inizio. Al contrario è una condizione che va incontro con l’età a dei cambiamenti che è importante conoscere per poter comprendere i nuovi problemi dell’handicappato adulto e, se possibile, prevenirli.
Come tutti, la persona adulta con handicap subisce cambiamenti a vari livelli.

Cambiamenti biologici

Cambiamenti biologici innanzi tutto: l’handicap di base (fisico o mentale che sia), anche se non è di tipo strettamente evolutivo, come certe malattie muscolari, genetiche, dismetaboliche, che progredisono in modo prevedibile, può determinare comunque, col suo persistere, progressivi cambiamenti. Ecco così che una situazione considerata stabile, dopo gli eventuali miglioramenti dei primi anni, ci riserva altri inattesi cambiamenti.

Per esempio l’epilessia: la lesione cerebrale di base resta sempre la stessa, ma la tempesta periodica che subiscono le delicate funzioni cerebrali è, nel tempo, uno stress che il cervello non dimentica. O ancora, si sta osservando che persone con malattie genetiche in apparenza stabili, come la sindrome di Down, subirebbero precocemente quel tipo di decadimento fisico e psichico che si ha di solito nell’anziano. O anche cerebropatie determinate una volta per tutte (malattie infettive in gravidanza, traumi durante il parto…) provocherebbero, col tempo, squilibri dei già fragili meccanismi cerebrali tali da far sopravvenire disturbi psichici inattesi: aggressività, depressione, instabilità di umore… Allo stesso modo, chi è portatore di un handicap fisico, può andare incontro ad atrofie muscolari, deformazioni scheletriche, dolori ecc.

Cambiamenti psicologici

Ci sono poi i cambiamenti psicologici: la persona con handicap, diventando adulta, conosce naturalmente bisogni nuovi: l’autonomia, l’amore, il sesso… cioè problemi e sofferenze nuove, dal momento che di solito rimangono desideri irrealizzati. Possono nascere allora reazioni di difesa: la tendenza a chiudersi, a rifiutare persone e attività e ad irrigidire il proprio comportamento in abitudini ripetitive, grandi e piccole «manie», continue richieste di rassicurazione ( «mamma, è vero che mi vuoi bene?» ), crisi di ansia e di paura. Talvolta compaiono vere psicosi.

Bisogna sapere, infatti, che lo sviluppo di una malattia psichica, non è quasi mai determinato dall’handicap in sé, ma è piuttosto conseguenza del vedere frustrati i propri desideri più profondi e dell’accorgersi che, nonostante si sia adulti, non si può vivere come si vorrebbe o come si vede fare agli altri (lavorare, sposarsi…). Questo disagio è poi aggravato dalla nostra scarsa sensibilità e dalla leggerezza con cui consideriamo i problemi legati alla vita di relazione della persona con handicap, soprattutto nei suoi momenti di maggiore fragilità come l’adolescenza e ravvicinarsi, appunto, all’età adulta.

Manca un progetto di vita

Infine consideriamo i cambiamenti esistenziali. Tutti noi abbiamo bisogno di dare un senso alla nostra esistenza. Per questo sono necessarie alcune cose:

  • avere un «progetto di vita», cioè uno scopo da raggiungere che ci sproni e ci motivi;
  • avere relazione e comunicazione con gli altri;
  • vivere in un ambiente armonioso, favorevole;
  • avere la possibilità di una crescita continua della nostra persona.
Spesso alla persona adulta con una disabilità mentale viene a mancare un progetto di vita

Sono condizioni non facili da realizzare, particolarmente per un adulto con handicap. Spesso infatti viene a mancare per lui un «progetto di vita»: anche se ha un’attività lavorativa o un’altra occupazione il problema non è risolto per sempre se lo lasciamo in una situazione statica, in cui le giornate scorrono tutte uguali, programmate, fini a se stesse, senza speranze di progressi. Sappiamo come non poter fare un passo avanti voglia dire, alla lunga, fare qualche passo indietro.
Si possono impoverire anche le relazioni con gli altri: tensioni e rivalità con i fratelli, intolleranza verso i genitori e magari si finisce per asfissiare quell’unico amico sempre con lo stesso «disco» (idee ossessive, stereotipie).
Per quel che riguarda l’ambiente, poi, la persona handicappata vede calare l’interesse nei suoi confronti: finché era piccola ci si aspettavano da lei miglioramenti e sorprese, ora invece la famiglia è stanca, pensa di aver fatto quel che c’era da fare o crede di aver risolto ogni problema ( «il lavoro ce l’hai, la tua vita è ormai organizzata, e poi quel che è fatto è fatto» ). Subentra un po’ di disinteresse e di abitudine. Forse il suo comportamento monotono e fisso può essere una risposta a un nostro atteggiamento analogo.
Facilmente succede poi che la crescita continua e armonica della sua persona venga bruscamente interrotta da qualche evento o provvedimento inevitabile (la perdita di una persona cara, un ricovero in ospedale, l’ingresso in una istituzione, un cambiamento di lavoro, un trasferimento in un’altra città…). Per lui cambiare ambiente è ancora più traumatizzante che per noi e certi provvedimenti devono essere presi con cautela e delicatezza, dopo un’accurata preparazione, aiutandolo nell’adattamento alla nuova situazione. È spesso proprio nella capacità di adattamento che l’handicappato più lieve si dimostra più fragile.

La persona con handicap non rimane bambina per sempre

Queste considerazioni non sono fatte per allarmare le famiglie, né per aggiungere ancora pessimismo in questi difficili problemi; devono invece farci accorgere di una cosa: la persona con handicap non rimane bambina per sempre e le sue difficoltà nel vivere l’età adulta portano a tanto più gravi conseguenze quanto più la confiniamo nell’infantilismo, ignorando le sue nuove esigenze o trattandole in modo grossolano e superficiale.
Dobbiamo allora riconoscere che è, sì, importante impegnarsi per migliorare le situazioni pratiche della persona adulta con handicap, cosa che in fondo da qualche tempo si fa (inserimento scolastico o lavorativo), ma la cosa più importante sarebbe un cambiamento di mentalità che ci porti a considerare l’handicappato adulto nella sua totalità, a non sottovalutare, cioè, le sue problematiche esistenziali.

Ancora una volta i genitori hanno un ruolo fondamentale: imparando a trattare il loro figliolo come un adulto, educheranno gli altri a riconoscergli questa sua nuova dignità.
Sapere, allora, che esiste la possibilità di quei cambiamenti di cui abbiamo appena parlato e che l’handicap non è mai una situazione stabilizzata, servirà a trovarci più preparati di fronte ai suoi cambiamenti biologici e soprattutto ad aiutarci a prevenire i più gravi cambiamenti psicologici ed esistenziali.

Certo, comprendere la necessità dell’adulto non è cosa facile: anche quelle grossolane classificazioni in tipi di handicap che si fanno per i bambini non sono più valide per lui perché sfumano le caratteristiche dell’handicap di base e la persona si individualizza sempre più, si «personalizza».
Pensando, infine, alle possibili soluzioni è evidente che queste devono essere fondate su «istituzioni» (termine inteso in senso vasto, dalla famiglia, al posto di lavoro protetto, alla casa-famiglia, all’istituto…) capaci di creare situazioni «personalizzate», di agile struttura, piccole, a misura familiare, dove esista la possibilità di essere in comunicazione con gli altri e capaci di proporre un «progetto di vita» (anche agli operatori) fornendo anche i mezzi per realizzarlo.

Occorrono istituzioni a misura di famiglia dove sia possibile la comunicazione con gli altri

In termini pratici bisogna affrontare alcuni aspetti.

La riabilitazione, intesa sia come mantenimento, sia come prevenzione dei peggioramenti e sia, soprattutto, come crescente e competente attenzione psicologica ai problemi dell’adulto. Per ciò che riguarda i primi punti il problema è minore perché in fondo esistono strutture e operatori (fisioterapia, logopedia…). Il difficile è invece il secondo compito per il quale ancora non esistono competenze specifiche né si individuano le persone cui spetti svolgerlo (famiglia? medico? psicologo? assistente sociale?…)

L’assistenza, in campo sanitario, dove di solito non è adeguata, soprattutto se l’adulto è grave (la medicina non ha ancora una branca specifica in proposito); e in campo psicologico, consistente cioè nel creare ambienti vivi e stimolanti dove l’adulto possa sviluppare un suo progetto di vita, sia pur minimo, con un personale formato e, soprattutto, motivato a sua volta; nel campo del volontariato, purché ben organizzato e non approssimativo.

L’interazione con le famiglie, le quali devono essere infatti particolarmente sostenute (giacché invecchiando vanno incontro a stanchezza e abitudine) estendendo all’handicappato giovane-adulto le iniziative e i provvedimenti presi per il bambino.

In conclusione, questa relazione vuole avere lo scopo di combattere la tendenza diffusa a ritenere l’handicap un problema limitato al bambino e di stimolarci, appunto, a raccogliere le forze per colmare il ritardo organizzativo, psicosociale e medico di fronte all’emergenza della situazione.

Questo articolo è tratto da
Ombre e Luci n.17, 1987

Sommario

Articoli

Che cos’è un handicap? Non lo so di M. Bertolini
Non ha più sedici anni di Anna Cece da una conferenza del prof. G. Moretti
Maschio e femmina li creò di J. Vanier
Teresa, una storia di lavoro integrato di M. e J. Buffaria
Questa casa famiglia è una risposta di N. Schulthes
Crescere con il lavoro di S. Sciascia

Rubriche

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Non ha più sedici anni ultima modifica: 1987-03-21T13:39:02+00:00 da Redazione

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