Olga Burrows Gammarelli, inglese naturalizzata italiana e mamma di Sabina, con una grave disabilità, racconta della settimana di formazione internazionale per i responsabili di comunità cui ha partecipato nel suo stile molto pragmatico. Ceili Horsburgh, scozzese, testimonia la sua esperienza familiare e comunitaria di ecumenismo.

Così non si fa!

Corso di formazione per responsabili FL Ilkley GB – 23/31 agosto ’86
Il corso durava nove giorni e sono stati 9 giorni intensi e con un forte contenuto spirituale. Eravamo una quarantina di persone provenienti un po’ da tutto il mondo. Data la vicinanza, molte persone venivano dalla Scozia e dall’Inghilterra, ma altri venivano da paesi lontani come l’Australia, l’America e le Filippine. Dall’Italia c’eravamo io e Anna.
La maggior parte delle persone presenti erano già responsabili: capigruppo, coordinatori, sacerdoti, ma c’erano anche persone nuove mandate apposta per imparare. Devo dire che c’era molto da imparare, specialmente per persone nuove. Nei nove giorni passati insieme abbiamo avuto conferenze sullo spirito di Fede e Luce, ma anche insegnamenti pratici, tecniche varie su la costituzione, i tre momenti, le componenti del gruppo, l’equipe di animazione e così via.
Devo dire che a livello tecnico, Anna ed io non avevamo molto da imparare essendo state tutte e due per parecchio tempo responsabili di un gruppo. C’erano canti e giochi nuovi da imparare e metodi più stimolanti per organizzare incontri di preghiera. Ma la cosa più brillante che abbiamo imparato secondo me, è stato il modo per far passare queste conoscenze ad altre persone, in modo che si divertano mentre imparano e ricordino quello che hanno imparato. Per esempio ogni discorso tecnico, era seguito da un esercizio pratico fatto da ogni partecipante, sotto forma di mimo o altra.
Eravamo divisi in gruppi di lavoro di otto persone. Dopo ogni conferenza ognuno raggiungeva il proprio gruppo. Approfondivamo insieme l’argomento del discorso e poi, secondo il caso, presentavamo il nostro esercizio.
Per dare un esempio, prendiamo il discorso sulla «equipe di animazione». Gli organizzatori hanno preparato una recita su come non si deve fare equipe di animazione. Nella finta riunione gli attori hanno rappresentato tutti gli sbagli possibili. Chi arrivava in ritardo, chi stava ancora mangiando col panino in mano, chi era assorto in fatti propri; a un certo momento han cominciato a litigare e sono usciti a uno a uno sbattendo la porta. Alla fine della recita, noi partecipanti siamo stati invitati a dire le nostre critiche e i suggerimenti. Pensavamo che tutto fosse finito, quando Marie Vincente ci dice: «Adesso fate voi».
Il gruppo doveva rappresentare la riunione fatta in modo giusto. Toccò a me interpretare il capo, dopo aver organizzata in 10 minuti la rappresentazione della riunione «giusta».
Dopo la lezione su «come votare per un responsabile», abbiamo dovuto mettere in pratica il sistema eleggendo un capogruppo in ognuno dei nostri gruppi. Ogni gruppo aveva il suo osservatore esterno; nel mio gruppo era Roland. Abbiamo impegnato un sacco di tempo eliminando le persone piano piano. Alla fine sono stata eletta io e ho dovuto fare il responsabile di gruppo per tutto il corso.
Questa di mettere subito in pratica quel che si è detto, è stata un’idea geniale. Intanto, nessuno si addormenta durante la lezione: non c’è posto per la noia. Ognuno è spinto a fare del suo meglio per non far brutta figura. Eravamo costantemente stimolati. Io non mi sono sentita mai stanca: avrei potuto continuare altri 9 giorni.
Un corso come questo deve esser tenuto da persone qualificate e richiede molta preparazione. Il gruppo dell’organizzazione era fatto dalle persone del luogo, mentre i contenuti tecnici erano stati studiati dalla equipe internazionale. Ne facevano parte costantemente Marianne Abramson, Marie Vincente e Roland, membri del consiglio internazionale, ai quali si sono aggiunti a turno Jean Vanier, David Wilson e Marie Hélène.
Olga Gammarelli

«Fede e Luce crede che la persona debole e handicappata può diventare fonte di unità nella società e nella chiesa e anche fra le chiese e le nazioni».
(dalla Carta di Fede e Luce – III, 5)

Due oppure uno: forse un modello

Testimonianza di Ceili Horsburgh all’incontro internazionale a Santo Domingo, 1986

Preparando questa testimonianza, mi chiedevo che cosa potessi dire d’interessante per gli altri e di come vivo l’ecumenismo; come faccio di solito quando parlo di Fede e Luce, ho preso lo spunto dalla mia famiglia.
Ho 32 anni, sono sposata con due figli. Ho incontrato mio marito, Alan, undici anni fa. Alan è la mia roccia, il mio sostegno anche a Fede e Luce. Senza il suo aiuto non so se potrei trovarmi qui ora con voi. Proprio quando ho incontrato Alan per la prima volta ho incontrato le diverse tradizioni dell’ecumenismo. Alan non è cattolico, è presbiteriano. Come capita a ogni coppia, quando ci si incontra e si pensa che è arrivato il compagno giusto, abbiamo cominciato a parlare del nostro futuro insieme. Se ripenso a quei momenti, capisco che l’ecumenismo ha avuto sempre un ruolo nella mia vita. Vivendo nella piccola comunità di Kelso dove i cattolici sono una minoranza (150 circa), i miei amici a scuola e a casa erano di diverse confessioni; quindi sono cresciuta in mezzo all’ecumenismo. Ognuno di noi a scuola sapeva che, quando c’erano servizi liturgici di fine anno o celebrazioni cristiane speciali, doveva dividersi dagli altri per andare ciascuno nella rispettiva chiesa. Per il resto del tempo però condividevamo i nostri comuni sentimenti religiosi insieme, o in assemblea o nella preghiera comune.
Nel mio matrimonio cerchiamo di vivere l’ecumenismo ogni giorno. Alan capisce il mio impegno nella fede e insieme lavoriamo con i nostri figli non per creare barriere con le nostre diverse impostazioni religiose ma per congratularci del bene e delle cose positive. Cattolici e presbiteriani possono condividere la vita. Spesso a Fede e Luce può essere difficile vivere la condivisione: noi cattolici abbiamo bisogno di ricevere l’Eucarestia come il pane quotidiano e talvolta non possiamo capire perché sarebbe importante non avere la Messa e soffriamo con i nostri fratelli protestanti. La prima volta che ho avuto occasione di provare questo sentimento è stato quando le comunità scozzesi di Fede e Luce hanno celebrato insieme un servizio liturgico della Chiesa di Scozia. Come siamo entrati nella chiesa abbiamo sentito un’amichevole e calda accoglienza. Come sempre era meraviglioso ritrovarsi con amici che venivano da diverse parti e cantare insieme i canti Fede e Luce. Quando il servizio è cominciato ho dovuto prestare maggior attenzione del solito. Il sentimento di assistere a qualcosa di diverso cominciò ad insinuarsi in me e credo di aver provato qualcosa di simile a quello che i nostri amici non cattolici provano quando assistono ad una nostra messa. Il servizio era bello, con molte letture e gesti che hanno favorito uno stare bene insieme. Alla frazione del pane, abbiamo guardato i nostri amici partecipare alla loro comunione e il legame fra tutti è stato il gesto simbolico di passarci il calice l’uno l’altro bevendo o astenendoci. Non c’era lì in quel momento un senso di divisione ma una presa di coscienza di lasciare qualcosa di noi stessi e di ricevere un nuovo senso di condivisione.
Nel mio incarico di coordinatrice delle comunità Fede e Luce di Scozia, mi capita di assistere a molte questioni che sorgono dalle diverse impostazioni religiose. Il mio matrimonio con Alan mi ha aiutato in diversi modi. Spesso mi viene chiesto come posso capire che cosa si prova nel «condividere» o nel «dividere».

Vivere la condivisione nella differenza

Onestamente posso dire che la mia unione con Alan mi dà la «pratica» per cercare di aiutare le comunità a vivere la condivisione nella differenza, soprattutto quando nascono ostilità fra cattolici e non cattolici.
Io ed Alan abbiamo imparato ad accettarci come siamo, rispettando il credo dell’uno e dell’altro, senza cercare di convertire l’altro al nostro modo di pensare. Non mi aspetto che Alan venga alla Messa con me, ma mi aspetto che venga ad accompagnarmi e che mi venga a riprendere dopo. In occasioni speciali per me o per i figli, so che verrà ad inginocchiarsi accanto a me per essere con noi con il corpo e nello spirito. Io non voglio cambiarlo. Lo amo perché è Alan e questo è tutto. Credo che egli mi ami perché sono Ceili, non perché sono cattolica o perché un giorno potrei aderire alla sua chiesa. Egli mi accetta come sono, con la mia passione per la musica, la mia religione, i miei ideali, il mio temperamento vivace. Io lo accetto com’è con la sua praticità posata, la sua religione, la sua passione per il rugby. Non importa quanto lui cerchi di provarmi che il suo rugby è più bello della musica; non ci riuscirà mai. E io so che lui preferirà sempre guardare una partita di rugby piuttosto che ascoltare Mozart. Eppure ci amiamo e non cambieremo né vogliamo cambiare.

Penso che la mia famiglia sia come una piccola comunità Fede e Luce

Questo è normale per una coppia sposata, per lo meno dopo i primi tempi. All’inizio si può pensare che il proprio marito o la propria moglie ha molte qualità ma anche che si potrà cambiare quello che non ci piace nell’altro… ma poi, dopo anni, capiamo che non è poi così importante cambiare quanto essere vicini l’un l’altro. Il mio matrimonio assomiglia all’ecumenismo, ecumenismo vivente: due eppure uno, uno eppure due, forse un modello per le chiese.
E poi ci sono i figli.
In qualche modo quello che io ed Alan siamo per noi stessi e l’uno per l’altro, non ha proprio così tanta importanza perché abbiamo due piccoli di cui prenderci cura. La prima è Anna, la nostra figlia adottata che ha bisogno del sostegno e dell’esempio del nostro amore. Qualunque cosa sbagliata fra Alan e me la sconvolgerebbe e la sconvolge effettivamente. Se abbiamo divergenze fra noi, e le abbiamo, devono essere risolte fra noi, e le dobbiamo mostrare una sola faccia. Non può essere messa di fronte a una stessa verità con due facce. Le si deve mostrare un’unica direzione. E ancora di più ora che abbiamo il nostro piccolo Davide, un bambino con sindrome Down, abbandonato dai genitori due giorni dopo la nascita. Egli deve essere circondato da una comunità d’amore; ha bisogno di questo; merita questo.
Penso che la mia famiglia sia come una piccola comunità Fede e Luce. Al centro c’è il piccolo Davide, il nostro bambino handicappato. Accanto c’è la sorella maggiore che ha un handicap più nascosto (è stata adottata) e insieme, io come cattolica, e Alan, presbiteriano, dobbiamo essere per loro scudo e porto d’amore. E con noi c’è padre Me Cann che ci ha tanto aiutato ad accogliere il nostro piccolo Davide ed è amico e sostegno per noi quattro. Insieme dobbiamo creare un posto al piccolo Davide.
Forse anche a Fede e Luce dobbiamo prenderci l’un l’altro «nella buona e nella cattiva sorte, nella ricchezza e nella povertà, nella malattia e nella salute, finché morte non ci separi».
Ceili Horsburgh

Questo articolo è tratto da
Ombre e Luci n.16, 1986

Sommario

Editoriale

Prepariamolo a vivere con gli altri di Maria Egg
Tutto quello che ha fatto per noi di Brunella D'Amico
Ora che sono sola… non sono più sola di Luisa Spada
Festa in casa con lui di Rita Ozzimo
Perché ho dato una mano di O.B.
Il convento: una seconda famiglia per Giampiero di Nicole Schulthes
Vederli migliorare di Sergio Sciascia

Rubriche

Dialogo aperto
Vita Fede e Luce

Libri

Quando arrivano i "Fatt’ Curagg" di E. Teresa Biavati
Come i cerchi nell’acqua di Carla Piccoli Dal Maso
Vivere l'ultimo istante di Christiane Jomain

Vita Fede e Luce n.16 – Corso di Formazione di Ilkley ultima modifica: 1986-12-25T12:29:32+00:00 da Redazione

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