Anzitutto, che cosa ho fatto di così particolare da essere messo in risalto? Mi sono occupato di Emanuele negli ultimi tre anni, due volte la settimana di pomeriggio (una sola volta a settimana lo scorso anno). Se andiamo a stringere, non sono che alcune centinaia di ore nel corso dell’intero periodo.
La caratteristica più notevole di questo mio impegno ritengo sia stata la continuità. Infatti nei giorni fissati, puntualmente, andavo a prendere Emanuele. La famiglia poteva contare su questo aiuto di per sé modesto, ma che consentiva di programmare per quei determinati giorni e quelle ore attività e impegni altrimenti di difficile attuazione.

Un aiuto anche limitato ma con una certa continuità ha una sua importanza e agisce a vari livelli

Quando ho iniziato ad occuparmi di lui, Emanuele aveva diciassette anni, la stessa età di mio figlio (nacquero a un mese di distanza l’uno dall’altro). L’amicizia tra le nostre due famiglie risale però a molto tempo prima e da allora si è sempre più rafforzata. Abitiamo nello stesso quartiere e ci vediamo spesso; abbiamo condiviso diversi momenti lieti e difficili e i nostri ragazzi (Emanuele ha due sorelle e un fratello più giovani) sono cresciuti praticamente insieme.

Per il consolidamento di questa amicizia, Emanuele ha avuto un ruolo importante. E’ stato con noi in molte occasioni e abbiamo imparato a conoscerlo e ad apprezzare le sue qualità: una grande sensibilità d’animo, una decisa passione e predisposizione per la musica e il ritmo, una straordinaria carica di simpatia. Malgrado le sue qualità, all’età di diciassette anni Emanuele non sapeva dire che «mamma» e «papà» e una serie di monosillabi incomprensibili. L’unica parola trisillabe che riusciva a pronunciare era «matita». Chi gliel’aveva insegnata doveva aver faticato molto ed egli ripeteva con orgoglio «ma-ti-ta» in ogni occasione, a proposito e a sproposito. Oltre all’amicizia è stato questo il secondo motivo che mi ha spinto a occuparmi di lui con più attenzione.
Emanuele era triste: la musica che ascoltava moltissimo era il suo rifugio, ma ciò non gli consentiva di comunicare, cosa di cui aveva assoluto bisogno. Il poco tempo che ho saputo dedicargli è stato in gran parte utilizzato a questo fine. Il lavoro iniziale di ricerca delle sue possibilità è stato un po’ duro per entrambi. L’assimilazione di un piccolo vocabolario mi è sembrata la base più ovvia da cui partire, una trama elementare su cui potessero aggregarsi le altre acquisizioni.

Emanuele mi sapeva amico, e in un clima di piena fiducia reciproca la sua ricettività si è aperta senza riserve. Questo del «clima» in cui si lavora è un fattore da non sottovalutare. Una persona amica, per un handicappato può fare più di quanto la sua poca esperienza al riguardo non gli faccia credere. Inoltre, per un ragazzo in difficoltà come Emanuele, poter vivere in una famiglia allargata a quella degli amici, significa veder ampliarsi il mondo delle sue relazioni, con maggiori possibilità di accrescimento.
Come si comprende, un aiuto di questo genere, limitato ma che abbia una certa continuità, ha una sua importanza e agisce a vari livelli. Per quanto riguarda me devo aggiungere che nel bilancio di questa mia esperienza con Emanuele mi è difficile dire chi di noi due abbia tratto maggiore giovamento.

di O.B., 1986

Questo articolo è tratto da
Ombre e Luci n.16, 1986

Sommario

Editoriale

Prepariamolo a vivere con gli altri di Maria Egg
Tutto quello che ha fatto per noi di Brunella D'Amico
Ora che sono sola… non sono più sola di Luisa Spada
Festa in casa con lui di Rita Ozzimo
Perché ho dato una mano di O.B.
Il convento: una seconda famiglia per Giampiero di Nicole Schulthes
Vederli migliorare di Sergio Sciascia

Rubriche

Dialogo aperto
Vita Fede e Luce

Libri

Quando arrivano i "Fatt’ Curagg" di E. Teresa Biavati
Come i cerchi nell’acqua di Carla Piccoli Dal Maso
Vivere l'ultimo istante di Christiane Jomain

Perché ho dato una mano ultima modifica: 1986-12-29T11:29:45+00:00 da Redazione

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