«Mi pareva di avere un mostro. Il mio bambino è rinato adesso. L’ho odiata perché mio figlio voleva più bene a lei che a me! Ora me l’ha restituito!» Nel ricordo appassionante di queste parole dettele per telefono da una madre, la voce di Piera Toschi si è alzata sul tono pacato con cui racconta momenti di una vita dedicata a capire, aiutare e curare, bambini psicotici.
Siamo a Firenze, via Lungo l’Affrico n. 246. Qui c’è un Centro Specializzato per Psicotici; sembra che sia una rarità, perciò siamo venuti a conoscerlo.
Le condizioni per un esame obiettivo non mancano; piove insistentemente e il bel parco intorno appare grigio e fradicio; la villona un po’ sciupata del primo novecento ha le cubature inutili e difficili da usare del suo genere; la direttrice che ci accoglie non è appariscente, forse ha un filo di diffidenza. L’effetto vetrina, le apparenze mancano: si può vedere meglio la sostanza.
La sostanza, umana e professionale, dell’istituto «Il Salviatino» comincia con Piera Toschi, medico, specializzata in pediatria e in psicanalisi. La preparazione scientifica e una vita di esperienza con i bambini psicotici, non le hanno tolto umiltà ed elasticità mentale: quando sente che uno specialista o un istituto fanno qualcosa di nuovo per gli psicotici, va subito per conoscere, per imparare, magari per copiare un’apparecchiatura. Con lei va spesso lo psicologo che lavora nel Centro Prof. Luigi Rima, insolita figura di nonno rasserenante.

Laura ha 12 anni. E’ molto bella. Nella stanza della musicoterapia c’è un organo elettrico. Laura preme due tasti adiacenti. Si chiude nella vibrazione dissonante continua, che pare suono di un altro luogo senza tempo. Gli occhi meravigliosi guardano fuori del nostro mondo. Ogni tanto un lieve sorriso tutto interno, Laura resta dentro il suono senza fine. Così la prima volta ho visto il mistero dell’essere chiuso in se stesso.

Vediamo «nonno Luigi» nel primo laboratorio in cui entriamo visitando l’istituto. Sta con un ragazzo davanti al «proiettore terapeutico» diviso in caselle, nelle quali appaiono a comando immagini e parole scritte. «Questo l’abbiamo copiato a Filadelfia» spiega. «Costava vari milioni, ma un tecnico di qui ce l’ha costruito per quattro soldi».
Ascoltando la direttrice, emerge la caratteristica che ci sembra più importante: la preparazione scientifica è cresciuta non tanto dietro idee preconcette quanto con la ricerca e con l’esperienza diretta, affettiva, delle sofferenze e dei problemi reali di questi bambini e delle famiglie. Senza toni polemici, ma con il sentimento di chi ha partecipato in prima persona esce presto il tema dell’inserimento.
I bambini — dice — bisogna prenderli presto, intorno ai tre anni. Per questi otteniamo recuperi ottimi. Per quelli che arrivano a 8-10 anni, magari dopo 5 anni che non parlano, possiamo fare poco. Genitori, pediatri, assistenti di asili nido devono imparare a riconoscere i primi segni delle psicosi gravi, dell’autismo. Fin dalla culla un bambino che non ricambia il sorriso, che non guarda, è da osservare con attenzione. L’inserimento può essere inutile o peggio.

Il bambino psicotico vive in uno stato di angoscia che ha origine proprio nel suo ambiente. Il rapporto con i genitori tende a distorcersi. Di fronte al figlio «diverso», il comportamento dei genitori per forza si carica di tensione e si altera. Il bambino ne risente, la sua angoscia aumenta, perciò si accentua la sua «stranezza». In conseguenza cresce la tensione della famiglia. E’ una spirale maledetta che deve essere interrotta. Quando si avvia, il bambino deve entrare in comunità terapeutica. L’esperienza mi dice che il soggiorno, preferibilmente semi-residenziale, è necessario nei casi gravi di autismo e psicosi che si manifestano in modo impressionante con il disinteresse per la realtà, la chiusura agli stimoli esterni, il mutismo, il rifiuto del cibo. Allora la famiglia che provvede da sola all’assistenza si trova di fronte a difficoltà enormi.
Quanto al reinserimento nella scuola, a parte l’analisi preventiva che permette abbastanza bene di capire se è opportuno o no, c’è una prova sicura. Se il bambino a scuola impara, deve frequentare e venire qui solo per la psicoanalisi. Se sta a scaldare il banco, l’inserimento è inutile.
Nicola qui ha imparato a scrivere. Peccato che sia arrivato a 10 anni. Fosse venuto a 6-7 anni invece di far nulla a scuola, avrebbe imparato meglio.

Il bambino autistico si difende dalla realtà, si chiude in un guscio. Non vuole vedere gli altri, non vuole sentire, non vuole mangiare. Tutti hanno problemi di alimentazione. Bambini anoressici ho cominciato a nutrirli in psicoterapia, facendogli trovare ogni volta qualcosa che avevo capito gradita. Io psicoterapeuta sono stata vissuta come mamma che alimenta. Sono i primi passi di un lungo lavoro che prima mira a rendere i bambini ricettivi, poi, quando si capisce che recepiscono, a renderli comunicativi, principalmente a suscitare in loro la volontà di comunicare: il modo non conta, basta una reazione, un gesto.
Per ognuna di queste cose che dico, ho in mente visi, esperienze, gesti. Quando Luigi venne qui, la mamma era convinta di avere un mostro, per il quale i medici assicuravano che non c’era nulla da fare: giocava solo col suo corpo e in modo per noi ripugnante. Luigi rimase interno per 5 anni, poi frequentò il centro come esterno, dalle 9 alle 17 passando tutte le tappe psicoanalitiche fin dalla nascita; gradualmente fu reinserito. Oggi è quasi guarito.

Spesso li curo fisicamente, benché si dica che lo psicanalista non debba fare anche il medico; ma vedo ragazzi psicotici con tali angosce e sofferenze, dai quali è impossibile sapere che cosa sentono, che solo chi li conosce veramente può e deve curarli.
Oltre che sui bambini cerchiamo di intervenire sull’altro polo della tensione, la famiglia. I genitori del bambino che viene qui, si impegnano a venire regolarmente (ogni 7 o 15 giorni) in psicoterapia, per un periodo lungo.
Le famiglie dei bambini sono unite in un’associazione. Facciamo riunioni periodiche, feste, discussioni, talvolta dopo aver visto insieme film opportuni (per esempio, Anna dei Miracoli, David e Lisa): servono a conoscere meglio il male, a liberare i genitori dal senso di colpa, a farli partecipare.
Quando il personale è assente, qualche genitore viene a sostituirlo: qui è necessario che i gruppi di lavoro siano piccolissimi e i ragazzi vengano seguiti di continuo e pressoché individualmente.
Per le educatrici, sia pure con difficoltà, ho ottenuto di poter esercitare una certa scelta. Hanno diploma magistrale e specializzazione ortofrenica. Quando arrivano qui fanno un periodo di tirocinio accanto ad una educatrice esperta, durante il quale imparano anche a conoscere i ragazzi. Inoltre ricevono qui lezioni periodiche di aggiornamento.
A rendere particolarmente interessante questo Centro, oltre alla prevista dotazione di laboratori per varie attività e terapie (musica, danza, lavoro artigianale, ecc…) è anche la particolare cura dedicata agli «elementi di contorno» (chiamiamoli così) del bambino: i genitori e gli educatori.
I suoi risultati, il suo limite, nonché il suo valore di esempio dipendono dal fatto che «Il Salviatino» appare molto legato alle qualità umane e professionali della persona che lo dirige.

-di Nicole Schultes e Sergio Sciascia, 1984

La comunità terapeutica

La sede di una comunità terapeutica deve essere un ambiente accogliente e stimolante, con operatori qualificati.
Gli utenti del servizio non dovrebbero superare la ventina e devono essere organizzati in piccoli gruppi educativi di non più di 3 – 4 bambini. Gli interventi terapeutici consistono in trattamenti medici e farmacologici, psicoterapeutici e riabilitativi, psicologici e pedagogici.
Con tecniche psicoterapeutiche adatte, il bambino viene indotto a recepire gli stimoli esterni e a ricercare dei messaggi. Si effettuano quindi interventi integrativi di psicologia e di percezione sensoriale e si sviluppa il lavoro dei gruppi educativi. In questo ambiente di stimoli vari e adeguati, il bambino è portato a dare risposte motorie e di comportamento positive. Se l’intervento è tempestivo, sono possibili anche recuperi di linguaggio. La coordinazione di questi interventi è il compito principale della Comunità Terapeutica. Attraverso l’operatore, i pazienti fanno l’esperienza dell’ambiente in cui vivono.
La Comunità Terapeutica ha il fine di reinserire il paziente nel mondo, nel modo e nel momento migliore.
Le Comunità Terapeutiche dovrebbero essere distribuite sul territorio in modo da permettere un collegamento agevole con le famiglie, anche perché queste devono ricevere trattamento di sostegno.

-a cura di Nicole Schultes e Sergio Sciascia, 1984

Questo articolo è tratto da
Ombre e Luci n.6, 1984

Ombre e Luci n.6 - Copertina

SOMMARIO

Editoriale

Il mistero del bambino psicotico di Marie Hélène Mathieu

Quattro storie

Figlio mio non credo di Delia Mitolo
È sempre stato rifiutato di Lina Cusimano
La legge sull'integrazione di Vincenzo e Irene Ruisi
“La riabilitazione nella scuole”. Ma la bambina non è tenuta in classe
 di L.N.

Altri articoli

Nessun uomo è una pietra del Prof. Yves Pélicier
Psicosi precoci del Prof. Jaques Didier Duché
Un centro per la cura della psicosi di N. Schulthes e S. Sciascia
Psicosi infantile: alcuni consigli utili

Rubriche

Vita Fede e Luce n. 6

Libri

Vivere con un bambino autistico, A. e F. Brauner

Oltre la scienza: umanità e buon senso in un centro per la cura della psicosi ultima modifica: 1984-06-29T18:34:07+00:00 da Redazione

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